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27 Ottobre 2025“La Francia vive una delle fasi più caotiche della sua storia politica recente. In meno di due anni il paese ha visto succedersi cinque primi ministri — Élisabeth Borne, Gabriel Attal, Michel Barnier, François Bayrou e, infine, Sébastien Lecornu — senza che nessuno riuscisse a stabilizzare la maggioranza. L’Assemblea nazionale è frammentata in tre blocchi inconciliabili: la sinistra “disunita” attorno a La France insoumise (LFI), poco distanziata dai socialisti in termini numerici; la destra radicale del Rassemblement national (RN), alle prese con l’incandidabilità di Marine Le Pen; e il centro macronista, sostenuto dai post-gollisti di Les Républicains (LR), quest’ultimi divisi tra la partecipazione a governi sempre più effimeri e la tentazione di tornare all’opposizione. Sullo sfondo, incombe il rischio concreto che la Francia arrivi alla fine dell’anno senza una legge di bilancio approvata.
Il reincarico a Sébastien Lecornu — trentanove anni, macronista della prima ora ma ex LR, vicino a Bruno Le Maire e Eduard Philippe, considerato un “tecnico leale” più che un leader politico — appare come l’atto finale di una fase crepuscolare della presidenza Macron. Il nuovo esecutivo si regge su un equilibrio precario: centristi e moderati di destra con una base elettorale sempre più ristretta, mentre i socialisti si sono impegnati a non votare mozioni di censura in cambio della sospensione della contestatissima riforma delle pensioni.
Resta da vedere se questo fragile compromesso sopravviverà. Le divergenze emerse nel dibattito parlamentare sulla legge di bilancio e le due mozioni di censura — presentate da LFI e RN e respinta, la prima e la più insidiosa, solo grazie all’astensione socialista — lasciano presagire nuove turbolenze. Non è escluso che, nei prossimi mesi, la Francia si ritrovi di nuovo senza governo, costretta a nuove elezioni legislative. Ma quasi nessun partito sembra davvero desiderarlo: un voto anticipato potrebbe portare il RN al potere, spingere socialisti, ecologisti e comunisti nelle braccia di Mélenchon e mettere LR e centristi in una posizione delicatissima.
Si tratta di una crisi che nasce da una scelta politica precisa. Dopo la sconfitta alle elezioni europee del 2024, Emmanuel Macron ha deciso di sciogliere l’Assemblea nazionale — una decisione che in Italia e altrove è stata salutata come coraggiosa e strategica ma che in realtà, si è rivelata un errore fatale: il presidente ha pensato di poter agire nel vuoto, come se i partiti non avessero capacità autonoma di reazione. Ha scommesso su una rottura della destra repubblicana – che effettivamente si è realizzata, senza però che questo spingesse LR verso la coalizione macroniana – e su una sinistra incapace di ricomporsi. Ma è accaduto il contrario: la sinistra ha ritrovato un’unità d’intenti – più tattico-elettorale che reale – grazie alla funzione di “spauracchio” esercitata dal RN.
Il risultato è stato un Parlamento paralizzato e un presidente ancora più impopolare. Il tatticismo del presidente messo in atto nelle fasi successive alle elezioni legislative – la pausa per le Olimpiadi e i tempi lunghi per esercitare pressioni su un accordo di governo – ha alienato ancora più gli elettori. E oggi Macron è contestato anche nel suo stesso campo. Gabriel Attal, ex primo ministro e leader del gruppo parlamentare macronista, ha criticato pubblicamente l’Eliseo; Édouard Philippe, ex primo ministro e aspirante presidente, ha invitato Macron a dimettersi per dignità istituzionale.
Ma la crisi attuale va oltre le difficoltà personali del presidente che non è il solo responsabile. Come ha scritto Dominique Reynié, politologo di Sciences Po, “per la prima volta, il potere in Francia si è svuotato: né il presidente, né il Parlamento, né i partiti sembrano più in grado di esercitare un’autorità reale.” Macron non ha una maggioranza, non può sciogliere di nuovo l’Assemblea senza rischiare una disfatta, e si trova di fronte a opposizioni “moderate” divise ma strategicamente immobili. Il risultato è una paralisi che sa di fine ciclo — non solo per la sua presidenza, ma per la stessa Quinta Repubblica.
Molti osservatori parlano infatti di un “esaurimento” del sistema gollista. La logica semipresidenziale disegnata da De Gaulle nel 1958 per garantire stabilità si è trasformata in un meccanismo di blocco. L’elezione diretta del capo dello Stato, nata per rafforzare la legittimità democratica, ha prodotto un potere iper-personalizzato ma incapace di governare senza maggioranza. Le riforme istituzionali successive hanno aggravato il problema: la riduzione del mandato presidenziale da sette a cinque anni (voluta dai socialisti di Lionel Jospin contro Jacques Chirac) e lo spostamento delle elezioni legislative dopo quelle presidenziali (deciso dai repubblicani di Nicolas Sarkozy per rafforzare il potere presidenziale) hanno rafforzato la logica presidenzialista, ma anche la sua fragilità.
Come scrivono Alain Bergounioux e Gérard Grunberg su Telos, “nessuno sa più cosa sia davvero la Quinta Repubblica, né cosa dovrebbe essere”. Il sistema è sospeso tra due logiche incompatibili: un presidenzialismo senza maggioranza e un parlamentarismo senza coalizioni.
Quando Macron è arrivato all’Eliseo nel 2017, il panorama politico era devastato: socialisti e post-gollisti erano in crisi dopo gli anni di Sarkozy e Hollande. Aiutato dalle divisioni tra i socialisti e dalle inchieste giudiziarie sulla destra, il giovane candidato diventato presidente aveva saputo incarnare la verticalità del potere come risposta all’instabilità e come tentativo di rifondare il modello repubblicano. Nel suo discorso di insediamento promise di “riconciliare la Francia con sé stessa”, superando la contrapposizione tra destra e sinistra e unendo “i progressisti dei due schieramenti”. Il suo partito personale, La République en marche, così come LFI e RN, si è adattato perfettamente alla crisi di rappresentanza, senza però poterla risolvere. La presidenza “regale”, che doveva restituire decisione e visione, si è alla fine trasformata in un boomerang: il potere personale si è logorato, e la promessa di modernizzazione ha lasciato il posto alla sfiducia.
Anche in tema di politiche pubbliche, il contrasto tra il Macron del 2017 e quello di oggi è abissale. Il primo voleva essere il presidente della modernisation heureuse, promotore di una “Francia start-up nation”, meritocratica e competitiva. Il primo quinquennio è stato quello delle riforme strutturali — diritto del lavoro, imposta sulla ricchezza, formazione, tassazione delle imprese — tutte ispirate alla logica della “distruzione creatrice” à la Schumpeter ma reinterpretata da Philippe Aghion, suo mentore economico, vicino ai socialisti, e recente premio Nobel per l’economia.
Aghion sosteneva che la crescita nascesse dall’innovazione, ma che questa dovesse essere accompagnata da istituzioni in grado di redistribuire i benefici e proteggere chi restava indietro. Macron ha colto solo la prima parte del messaggio: la spinta all’innovazione. Ha trascurato, invece, la dimensione redistributiva. Il paese nel suo primo mandato è apparso a livello internazionale come un paese dinamico e in cui investire, ma nel frattempo, la società francese si stava ulteriormente frantumando. Come ha mostrato Jérôme Fourquet in L’Archipel français (2019), la Francia si è trasformata in un insieme di “isole sociologiche”: le metropoli globalizzate, le piccole città deindustrializzate e le zone rurali. Il macronismo ha rappresentato l’isola centrale — colta, urbana, mobile — senza costruire grandi collegamenti verso le altre. Primum vivere, elettoralmente, per scommettere su un nuovo ballottaggio con Le Pen e richiamare gli elettori al voto utile.
D’altra parte, come ha ricordato recentemente Philippe Aghion, intervenendo sul dibattito riguardo alla riforma delle pensioni, “la Francia ama tagliare la testa ai re”, ma le responsabilità della crisi attuale vanno ben oltre la figura di Emmanuel Macron.
La radice del problema è strutturale: una classe politica ossessionata dall’elezione presidenziale, che rappresenta il vero motore della vita politica francese. Tutto — programmi, alleanze, strategie, perfino le scelte legislative — ruota intorno a quella scadenza quinquennale. L’elezione del “monarca repubblicano”, che molti oggi vorrebbero riformare o addirittura abolire, è diventata il coronamento di una carriera politica e, al tempo stesso, il principale strumento di legittimazione personale. Ogni leader, da destra a sinistra, misura la propria forza non sulla capacità di costruire una maggioranza o di mediare, ma sulla possibilità di arrivare all’Eliseo.
Il risultato è una politica centrata sull’individuo più che sulle idee, sulle ambizioni più che sui progetti collettivi. In questo contesto, la responsabilità di Macron è duplice. Da un lato, ha contribuito a indebolire ulteriormente i partiti tradizionali — socialisti e gollisti — senza riuscire a creare un nuovo sistema stabile che li sostituisse. Dall’altro, non ha fatto nulla per frenare l’ascesa dei partiti estremi, che hanno riempito il vuoto lasciato dai partiti storici.
Ma, allo stesso tempo, è legittimo chiedersi: in un sistema presidenziale costruito sulla competizione permanente, quale leader politico potrebbe davvero lavorare in un orizzonte di lungo periodo, sapendo che ogni concessione agli avversari rafforzerebbe la loro posizione a proprio danno? La Quinta Repubblica 2.0, insomma, non produce solo presidenti “soli al comando”, ma anche una classe politica prigioniera della logica elettorale. È un sistema che incoraggia il potere personale, ma scoraggia la cooperazione, e che quindi rende difficile ogni forma di riformismo condiviso.
Queste problematiche si innestano poi in una crisi di fiducia nei confronti delle istituzioni che prosegue da tempo e che possiamo ritrovare in molte altre società europee. Come scrive Dominique Reynié in La société de défiance, la Francia è uno dei Paesi europei con i più bassi livelli di fiducia nelle istituzioni, nei partiti e perfino nei concittadini. Non è un fattore episodico, ma strutturale. È diventata una lente attraverso cui i francesi guardano ogni decisione pubblica.
La verticalità dello stile macroniano — cioè quella forma di presidenzialismo diretto, decisionista, che molti francesi avevano in passato invocato per uscire dalle paralisi della coabitazione — si è rivelata, col tempo, un fattore di amplificazione della sfiducia. In una prima fase, questa postura che i francesi hanno definito “jupiteriana” aveva suscitato speranza: l’idea di un capo dello Stato capace di decidere, dopo anni di incertezza politica, appariva come una promessa di efficienza. Ma in un contesto di frammentazione politica crescente, quel modello si è presto trasformato in isolamento. Durante il secondo mandato – dominato da logiche difensive, poco distante dalla maggioranza assoluta e segnato dalla riforma delle pensioni – la distanza tra l’Eliseo e la società si è ulteriormente approfondita. Macron, appena rieletto nel 2022 dopo il ballottaggio con Marine Le Pen, ha scelto di interpretare la vittoria come un rinnovo pieno del suo mandato, non come un voto “di sbarramento” contro l’estrema destra. Ha proseguito con determinazione nel suo programma di modernizzazione — una scelta legittima dal punto di vista istituzionale — ma senza aprire un vero dialogo con l’elettorato popolare che lo aveva sostenuto solo per evitare la vittoria di Le Pen. Invece di cercare un terreno comune o una politica più redistributiva, il presidente ha concentrato le sue energie sulle riforme strutturali e, paradossalmente, ha finito per adottare una legge sull’immigrazione che, pur pensata per rispondere alle paure sociali, ha rafforzato i temi e la narrativa dell’estrema destra.
E qui si inserisce l’altro tema che è quello del pessimismo francese che spesso finisce nell’immobilismo. Sullo sfondo della crisi c’è infatti la tensione tra la necessità di riforma del paese e la paura del cambiamento. I francesi sanno che il modello attuale non è più sostenibile — il debito pubblico ha superato il 110% del PIL, la spesa sociale rappresenta il 32% del PIL, la più alta in Europa — ma rifiutano l’idea che la protezione sociale debba essere “responsabilizzata” o condivisa con l’individuo. Questa ambiguità culturale spiega in parte perché ogni riforma del welfare diventi in Francia un detonatore politico. La difesa del modello sociale non è solo economica: è identitaria. Lo Stato-providenza è la traduzione concreta del principio repubblicano di égalité — la garanzia che nessuno resti escluso. Metterlo in discussione equivale, per molti, a mettere in discussione la Repubblica stessa. Ma questo attaccamento, se non si accompagna a un adattamento, rischia di trasformare la protezione in paralisi.
Così, la Francia si ritrova intrappolata tra due posizioni inconciliabili: la prima, che il suo modello sociale è un modello di giustizia redistributiva; la seconda, che non può più permetterselo nelle forme attuali. La politica, in teoria, dovrebbe risolvere questa contraddizione. Ma è proprio la politica ad essere oggi il punto più debole del sistema.



