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Il libero mercato a Venezia mostra il suo volto più feroce. Ho precisato libero dal momento che considero in sé l’economia di mercato, quello senza altri aggettivi, cioè lo scambio, qualcosa di neutro, che esiste dalla notte dei tempi e che nel bilancio della storia ha prodotto risultati positivi per l’umanità e per il suo progresso, anzi spesso ne è stato il motore. Ma quando il mercato è lasciato totalmente libero produce al contrario effetti perversi. Semplice. E non solo in questo campo, ma dovunque possa agire senza freni. Ha la stessa forza di un elemento della natura. Occupa lo spazio fin tanto che spazio c’è.
Sto parlando, per Venezia, di quella macchina da guerra che è il turismo, anzi l’offerta e il consumo turistico. Alla voracità della domanda, che si direbbe “bulimica”, anch’essa a modo suo feroce (e andrebbe capita, studiata e interpretata dai sociologi), corrisponde un’offerta che si può definire devastante per le sue conseguenze sul sociale e sul territorio urbano e nel suo insieme più ampio. Non accade solo a Venezia ben inteso, i veneziani si stanno un po’ alla volta accorgendo di non essere soli, ma Venezia è un caso di scuola, dove il fenomeno diventa paradigmatico nella sua lineare, manifesta, essenziale perversione. È di questi giorni nuovamente di attualità la questione delle affittanze brevi a scopo turistico e delle sue tassazioni e limitazioni, a cui i proprietari si oppongono con virulenza proprio in nome del libero mercato e del loro presunto diritto a fare reddito attraverso un bene, la casa, che reputano solo di loro competenza. Avrò modo di dire che non è così, che per la nostra legge fondamentale non è un bene solo di loro competenza e che di ciò i proprietari danno una lettura di comodo (proprio). Il ceto politico che ha governato Venezia per dieci lunghi anni continua sfacciatamente a proteggere questo lucroso andazzo, fingendo di opporsi, per mero calcolo elettorale. Ma lascio alle cronache la tecnicalità di ciò che sta succedendo in materia.
Le conseguenze di tali affittanze sulla residenzialità sono note. Un giorno sì e l’altro pure si alzano infatti giustificati lamenti sul calo di popolazione della città storica, con un fondamento reale, numerico e statistico. Nessuno nega nulla. Anche se da parte mia posso solo dire che mi pare persino miracoloso che i residenti non siano ancora meno di quelli che sono e che ci sia qualcuno che ogni mese sposta comunque dall’esterno la residenza nel centro storico di Venezia, come dimostrano i dati che mensilmente e annualmente fornisce il Comune. Ma quel qualcuno non ferma l’emorragia di popolazione e soprattutto il calo naturale, e rischia perciò di essere la classica goccia nell’oceano. È resa esplicita, da un’infinità di prove provate, la relazione tra le affittanze turistiche e la scarsa o comunque insufficiente offerta di residenzialità a prezzi abbordabili, fosse anche solo per il ceto medio o medio alto. Che anch’esso desiste, specie se costituito da giovani coppie in formazione, e va altrove, oppure se resiste in laguna, caso raro ma non inesistente, per compensare non si permette figli e la conseguenza sul calo demografico resta la stessa e aggravata. Anzi il rapporto nati/morti è di gran lunga la causa principale del calo. Anche perché chi viene a risiedere stabilmente nel centro storico dall’esterno, potendoselo permettere, non è quasi mai una coppia giovane in età da avere figli. E rappresenta alla fine un dato quasi ininfluente, anche se sta ad indicare che comunque un’attrattività, nonostante tutto, esiste ancora. E, se vogliamo, fa ancora più rabbia.
Tuttavia, le affittanze sono anche un fenomeno in qualche modo silente.
Targhettine, che indicano la condizione di affittanza (obbligatoriamente) a fianco ai campanelli delle case, tante, ma nell’immagine complessiva il dato e il fatto possono anche sfuggire. E’ quasi invisibile, lo si conosce in modo virtuale, si sa bene che c’è, soprattutto perché se ne vedono gli utenti, ma nel paesaggio sfugge anche con il naso rivolto all’insù verso gli appartamenti, le finestre non hanno nome.
Quello che non sfugge è la devastazione a terra, il numero dei turisti è semplicemente troppo alto, ma questo si sa. Pare che nell’ultimo anno siano anche un po’ diminuiti, perché, si dice (e gli operatori piangono il morto), il mercato americano è in flessione. Ma sono lo stesso troppi. E annullano la percezione di una città normale. Sempre che, quantomeno nei centri storici, ce ne siano ancora di città normali. Ed è soprattutto a terra, proprio ad altezza d’uomo, che si vede la macchina turistica in funzione; nel far cibare metro dopo metro la massa in un osceno banchetto collettivo a tutte le ore, nel trastullarla con orripilanti ninnoli di ogni tipo, nel mobilitarla da una parte all’altra, ostruendo la mobilità quotidiana dei cittadini, e nel mobilitare le merci di cui ha bisogno. E infine nel farla pernottare. Perché diversamente dalle silenti affittanze, invece gli alberghi e i loro similari si vedono eccome, tanti, troppi anche loro, oggi ben disegnati, eleganti e ben rifiniti tutti, le topaie di un tempo non ci sono più, la domanda è anche esigente. E da tutta questa catena di montaggio ne viene fuori un panorama totalizzante. Che possiede anche una sua elementare razionalità, nell’ottimizzazione delle risorse e nell’organizzazione generale. E la tendenza ad essere monoculturale ne consegue, è insito nel concetto stesso di ottimizzazione. Che ha il suo corollario più evidente nell’annullamento degli altri servizi, rivolti ai residenti, ritenuti un impiccio troppo complesso, e non parlo solo del commercio. Ottimizzazione è semplificazione. Si tratta perciò di una razionalità apparente, unilaterale, che nega il principio stesso di razionalità. Perché, di fatto viene venduto, come se fosse capitale privato, il bene del patrimonio culturale e ambientale, che peraltro sarebbe patrimonio comune; scaricando i costi della organizzazione turistica, oltre che sulla cittadinanza residente, sul territorio stesso che ne viene devastato, in evidente contraddizione con ciò che si vorrebbe vendere, vale a dire un territorio conservato ed integro da apprezzare, in primis dal turista stesso; e dove sta la razionalità? E’ una razionalità degradata a banale e scoperta astuzia, cosa ben diversa. E il risultato di questo gioco genera una situazione grottesca e irreale, pure nella sua disarmante realtà. Come per le affittanze, gli strumenti per normare e correggere i guasti dell’organizzazione turistica che impatta ad altezza d’uomo ci sarebbero, indirette, a cominciare dalla limitazione della domanda, e dirette, con regole e limitazioni nel commercio e in generale sull’offerta, anche alberghiera. Ma, di nuovo, si scatena il fuoco di sbarramento degli operatori e dei proprietari. Non se ne va fuori.
Ecco, Il libero mercato nel turismo a terra e, silente, nei piani più alti, dispiega tutto il suo potenziale. Non essendo minimamente regolato può farlo teoricamente all’infinito. Se il capitalismo coincide con questo tipo di libertà economica illimitata allora non esito a dire che il capitalismo offende il principio stesso di economia di mercato, che aveva nella lealtà e nell’essere paritaria, nel dare e avere, la sua essenza. Ma mi piace pensare che non tutto è così ed è stato così l’impiego del cosiddetto capitale, che ha spesso avuto, al contrario, anche molteplici applicazioni virtuose e persino etiche, seppure nel turismo è ancora in una fase del tutto immatura. E immorale.
I VALORI
Mi si lasci infatti un po’ filosofeggiare. Osservando questo quadro desolante si capisce come l’agire in libertà, in questo caso in un campo economico come quello del turismo, ma potrebbe valere per altri campi, sia un inganno per l’idea stessa di libertà. Che, lasciata a sé stessa senza freni, si contraddice. Il nostro patto sociale, che qualcuno chiama ancora Costituzione, contiene fior di articoli in cui l’impresa economica è libera solo se non lede gli interessi generali, e soprattutto se ha finalità sociale, scritto testualmente nel patto. Risulta infatti del tutto evidente che la libertà come diritto assoluto diventa una tirannia autoritaria e totalizzante. La semplice, cosiddetta, libertà negativa, quella per cui la libertà dell’uno finisce dove comincia quella dell’altro, viene oggi vista come un principio troppo individualistico e quindi del tutto insufficiente perché non contemplerebbe i diritti sociali. Quelli che, come si è detto, vengono messi a dura prova dal fenomeno turismo, nella residenzialità, ma anche in un territorio urbano devastato. Ma a ben vedere anche la basilare, ormai antica e delle origini, libertà negativa, se applicata alla lettera, nella sua linearità prevede una soglia superata la quale la libertà di un individuo interviene sulla libertà dell’altro, negandola all’altro. Fa a pezzi l’interesse dell’altro, qualsiasi altro, ma anche di tutti, perché il cosiddetto interesse generale è costituito dalla fusione o anche dalla semplice somma di tutti gli interessi individuali. Osando confutare Margaret Thatcher, dico che l’interesse generale, e quindi sociale, esiste. In definitiva la elementare libertà negativa, se bene applicata, ha anch’essa in partenza una sua, per quanto indiretta, ricaduta sociale e già di per sè deve per forza prevdere regole, limiti, divieti stabiliti da un arbitro imparziale, superiore, riconosciuto e rispettato da tutti. Lo dico soprattutto ai miei amici che danno una interpretazione troppo teorica e astratta del liberalismo: vietare, anche da parte dello Stato o del pubblico, non è un atto liberticida, come talvolta i miei amici troppo liberali sono inclini a ritenere, può essere invece uno strumento di libertà. Vietato non vietare.
Concludendo posso dire che ho usato toni che non mi sono consueti. Piuttosto duri e perentori. E li ho volutamente usati perché i fatti che ho citato e le loro conseguenze fan parte di una sfera che non ammette eccezioni. Su altri temi si può mantenere un tono più prudente perché la complessità di ciò che si ha davanti lo richiede. Ma sul tema libertà e le sue applicazioni in campo economico, la semplicità e l’evidenza attengono ai cosiddetti valori non negoziabili. Da difendere con determinazione.



