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31 Gennaio 2022“Non me ne frega un cazzo”, è uno dei leitmotiv di Strappare lungo i bordi, un graphic novel animato del 2021 per la piattaforma Netflix del fumettista Zerocalcare, la cui cifra è di essere “troppo romano”, “la sua parlata biascicata e incomprensibile”. Di tutto è stato detto intorno alla sua scelta linguistica ma lui si difende: “È la lingua della comfort zone, quella di un piano più intimo in cui il linguaggio deve essere più diretto”. Fa un uso abbondante del turpiloquio, di un linguaggio più diretto, più aderente a quello che usiamo nella vita di tutti i giorni. Una parlata romanesca contemporanea, viva, la stessa che si sente non solo nelle borgate ma dai tassisti, tra i ragazzi, nei bar, nelle scuole, nelle palestre, negli autobus, per strada, ovunque ci sia fermento di vita non soffocato dal perbenismo. Non teme di portare sullo schermo il mondo vivo, pulsante, il suo mondo che non dimentica. E ci sbatte in faccia il disagio quotidiano di una generazione lasciata a se stessa, senza maestri e senza certezze. E ci si ritrova immersi in un mezzo linguistico dialettale ma di un dialetto comprensibile a tutti dove racconta la quotidianità con un codice e un registro colloquiale, intimo, familiare che è anche riaffermazione della marginalità.
Non voglio dire che la lingua di Zerocalcare ha contiguità con quella letteraria ma mi dà l’occasione di fare un breve escursus sulla lingua letteraria come mezzo espressivo, dall’unità ad oggi.
Certo non è il primo che fa un’operazione di questo genere. Dalla lingua manzoniana a Zerocalcare (perdonerete il confronto) sono passati quasi 200 anni e si è avvicendata una moltitudine di scrittori che progressivamente hanno fatto tabula rasa della lingua nazionale popolare manzoniana per approdare a forme di sperimentalismo linguistico straordinarie. Si è passati dal centralismo linguistico accademico, espressione dei rapporti di forza e del potere, al policentrismo linguistico, espressione delle periferie e delle classi subalterne, spesso invisibili a cui viene finalmente data voce.
All’inizio fu la lingua, poi, arrivò la nazione. È la storia dell’Italia, un Paese nato dopo che da secoli esisteva un’unità linguistico-letteraria nazionale, un Paese in cui la coscienza e la volontà di un’unione si sono basate soprattutto su un valore culturale, appunto la lingua della letteratura, che ha in qualche modo prefigurato e quindi alimentato il desiderio e l’aspirazione all’unità politica. Sono la lingua, la cultura e la letteratura che per prime si chiamano italiana ed è proprio su quella che si prepara l’Italia come Stato. L’ideale dell’unità nasce in letteratura e poi diventa un progetto politico sulla base di identità, solidarietà e senso di appartenenza ad una nazione.
Il linguista Gian Luigi Beccaria disse: «Non è stata una nazione a produrre una letteratura, ma una letteratura a prefigurare il progetto di una nazione». Con una letteratura che era mancante di un centro culturale, letterario oltre che politico egemone, era la letteratura nazionale e popolare manzoniana a fare da garanzia di un’unità ideologica e linguistica.
Fu Alessandro Manzoni, infatti, a convincersi della necessità politica di una lingua nazionale comune a coronamento del processo risorgimentale. Pretende di imporre dall’alto l’unità linguistica prendendo a modello la lingua parlata della borghesia fiorentina (quella da lui usata lavando i panni in Arno). Laddove, però, lui stesso ha coscienza dello scollamento tra la lingua dell’intellettuale colto e borghese e la lingua dei suoi personaggi, sia pur nella pretesa di trovare nel fiorentino parlato la lingua comune!
La letteratura del Risorgimento, poi, si pone fortemente il problema della popolarità e della comunicabilità al fine di esaltare gli animi e guidare le coscienze verso la ridefinizione degli alti ideali unitari. Il 17 marzo 1861, con la seduta del primo Parlamento nazionale che aveva proclamato Vittorio Emanuele II Re d’Italia, il plurisecolare cammino dell’idea d’Italia si era concluso, dopo che era stato sorretto sul piano letterario da quella lingua che ne era stata per secoli a tutela del valore unitario e identitario.
E, nonostante fosse una lingua accademica, non naturale ma convenzionale, legata alla tradizione, piuttosto disancorata dalla lingua parlata dei parlanti, prevalentemente dialettofoni, era ancora capace di suscitare una forte tensione patriottica.
Ma all’indomani dell’unificazione politica, non spettava più alla lingua il ruolo che aveva assunto per secoli di continuare a fare da collante unificante sul piano culturale. Ormai la lingua fiorentina, accademica, convenzionale, tradizionale, unitaria era inadeguata per raccontare un mondo che diventava più complesso, era sentita come una lingua da superare in nome di una lingua naturale, quella della gente, di quel mondo popolare che si affacciava sulla scena politica del mondo e si affermava socialmente e culturalmente. Insomma l’italiano, rimasta per secoli lingua scritta e lingua della cultura, era inadatto, nella sua “rigidità”, a rendere alcuni generi, che richiedevano una lingua realistica, aderente al reale.
Così, dalla fine dell’800 si assisterà ad un’inversione di tendenza: visto che ormai aveva dismesso quel ruolo di garante dell’idea di unità nazionale. sarà il policentrismo a predominare la scena letteraria nelle sue molteplici forme. La letteratura diventa a poco a poco portavoce anche delle situazioni marginali o periferiche o regionali o eccentriche Ad un mondo in continua e frenetica evoluzione non poteva corrispondere una lingua imbalsamata e rigida. E così si affacciano sulla scena letteraria grandi figure che pur restando nell’alveo della tradizione la scardinano dalle fondamenta.
Dopo l’unità si aprono spazi per plurilinguismo, per sperimentazioni vive e vitali, che danno voce alla pluralità di realtà geografiche, sociali delle varie comunità di parlanti e portano ad un ibridismo linguistico espressione del ricchissimo e variegato patrimonio che dà vita al policentrismo. La parola diventa la cosa. La cultura dialettale delle classi contadine dopo l’unità esprime la protesta delle classi subalterne contro l’oppressione anche linguistica delle classi dominanti, rappresentate dalla lingua accademica, sentite politicamente lontane, che emargina l’espressione dialettale per la sua diversità. Così si assiste all’ingresso dei dialetti all’interno dell’opera letteraria che fino a quel momento non aveva trovato spazio se non per suscitare solo ilarità.
E il primo tra tutti è Giovanni Verga che scardina la lingua accademica per lasciare spazio se non al dialetto ad una lingua modellata sulla sintassi e sui vocaboli del dialetto siciliano in modo da potere esprimere in esso veristicamente le voci dei personaggi del mondo contadino in una creazione originale che sarà punto di partenza per coniugare regionalismo e modernità, tradizione e progressismo, anche nel ‘900. Inaugura quindi un filone che attraverserà il ‘900 passando per i realismi del dopoguerra fino ai giorni nostri.
Luigi Pirandello, a sua volta, è un iconoclasta nel campo della lingua. Contro la lingua che definisce mummificata , dipinta e pettinata, contro quelli che puntano al bello scrivere che imbriglia, sceglie una lingua viva che lasci spazio all’originalità della creazione con funzione mimetica. Al libero dispiegarsi del pensiero dovevano corrispondere le mille modalità espressive per aderire ad esso, uno strumento linguistico di estrema duttilità ed elasticità, spesso con sintassi destrutturata o locuzioni idiomatiche, dal formale all’informale. Sembra quasi che ogni pensiero, ogni personaggio, ogni riflessione o situazione possiedano una grammatica propria. Fino all’uso del dialetto con un lessico e sintassi che fuoriescono direttamente dalla campagna siciliana per entrare nelle novelle! Ne sentiamo tutto il sapore e il ritmo!
Impossibile ormai la reductio ad unum della lingua della letteratura italiana. Ormai la lingua italiana era stata destrutturata e polverizzata.
Da quel momento il dialetto, il veicolo naturale, si presentò come arte impegnata, contro un’arte che tendeva ad eludere i problemi reali del nostro paese (lotta partigiana, operai, sottoproletariato urbano, mafia), contrappose nuovi contenuti e personaggi all’arte della pura forma, cercò un mutamento radicale delle forme espressive. Per Antonio Gramsci l’arte doveva superare la spaccatura tra popolo e cultura, tra nazione e popolo. L’arte non poteva essere nazionale se non era anche popolare.
Molti scrittori nel secondo dopoguerra riscoprono un nuovo impegno morale e civile, una vocazione realistica con la rappresentazione di ambienti e personaggi popolari, con un linguaggio, quindi, che attinge dal dialetto freschezza ed efficacia. L’intellettuale cerca una comunicazione più diretta riuscendo a coniugare lingua e dialetto in un momento di massima e perfetta fusione e ibridazione.
E così con Pier Paolo Pasolini ogni forma espressiva dalla poesia, alla narrativa, al cinema alla saggistica doveva avere un forte impegno etico –politico, contro qualunque forma di omologazione alla cultura di massa e quindi contro la lingua della classe borghese e dei ceti dominanti. Testimonianza viva di contestazione contro il sistema. Ai contadini del Friuli Pasolini affianca la nuova realtà del sottoproletariato dei borgatari romani, assumendone pienamente l’uso del dialetto. E così anche Eduardo De Filippo.
Ma in realtà non sono solo i dialetti che scalzano la lingua letteraria ma nuove forme di ibridazione e di contaminazione della lingua. Molti scrittori accumulano, intrecciano codici: in un mondo poliedrico e complesso la lingua non poteva più essere monolitica, espressione di una continua dialettica centro-periferia, borghesia-popolo, centro politico-periferie regionali. Pensiamo a Carlo Emilio Gadda che inaugura uno spazio linguistico trasgressivo con il suo pastiche in cui l’italianità è un’astrazione. Polifonia e plurivocità caratterizzano la stratificazione dello stile con un ricchezza di repertorio lessicale e di registri, come rispecchiamento della frammentazione caotica della realtà e della impossibilità di interpretare il mondo in modo unitario. E ancora a Dario Fo, «Fenomeno sociale e politico» che ha inventato il grammelot, denso di espressività, con una straordinaria gamma di sfumature, lo sberleffo, la deformazione grottesca e surreale, con caricature espressionistiche, virtuosismi linguistici e al tempo stesso mimico-gestuali. Al poeta solighese Andrea Zanzotto che recupera anche i modi del linguaggio infantile (il petèl) con i suoi balbettii e le sue onomatopee e si colloca in una posizione decentrata rispetto alla norma linguistica, con uno slittamento rispetto al linguaggio ordinario. E ancora allo scrittore Vincenzo Consolo, con un alternarsi di lingue, e al poeta e scrittore siciliano Gesualdo Bufalino con una lingua che, pur con inserti dialettali o di dialetto italianizzato, rivendicano una raffinatezza, una ricerca e una sperimentazione linguistica di estrema originalità. E che dire dello scrittore bolognese Enrico Brizzi, col suo gergo giovanilistico.
E per finire con il nostro Andrea Camilleri, amato da molti, nonostante la sua scelta di un dialetto siciliano con parole a volte reinventate, di un siciliano italianizzato o di un italiano sicilianizzato, che sono entrate, ormai, nel linguaggio comune arricchendolo di espressività. Ma la sua lingua “è un modo di vedere il mondo”.
In conclusione si assiste ad una continua divaricazione tra quella che era la lingua letteraria e la lingua dei parlanti: prima dell’unità tutti i parlanti erano dialettofoni e la lingua letteraria unitaria e tradizionale. Oggi che progressivamente siamo diventati tutti italofoni di un italiano standard, la letteratura, invece, ha progressivamente scoperto la parola nuova del gergo, della comunicazione fatta di contaminazioni, nell’adozione e ibridazione tra dialetti italianizzati e italiano dialettizzato.
Abbiamo certamente rinunciato alla “purezza della lingua ma… si impoverisce o si arricchisce il mezzo espressivo? Zerocalcare è l’ultimo di una lunga serie in quel processo di trasformazione e di arricchimento delle potenzialità espressive della lingua. Certamente è una deviazione dalla lingua standardizzata, una violazione della lingua dei mezzi di comunicazione di massa. Sfugge, quindi, alla lingua del controllo sociale e assume un valore di trasgressione rispetto alle regole linguistiche, conferendole, però, spontaneità, naturalezza e immediatezza espressiva. Ormai i dialetti, recuperati dagli italiani diventati italofoni, sono un mezzo per un interscambio sempre più efficace e più variegato, quello che porta un milanese a dire “non mi rompere i cabasisi” o ad un catanese a dire “sei un pirla”!
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