
Da Manzoni a Zerocalcare, la lingua italiana tra centralismo e policentrismo
29 Gennaio 2022
Stand by
1 Febbraio 2022La guerra dei sei giorni contro l’offensiva populista si è conclusa dunque con una netta vittoria del Parlamento. Del Parlamento, che ha imposto la sua volontà agli stessi leader di partito: i parlamentari già da mercoledì hanno cominciato a prenderli per mano, e in qualche caso, quando necessario, anche a ceffoni (metaforicamente, s’intende).
Quel Parlamento bistrattato, umiliato e offeso che questa volta si è alzato in piedi e ha imposto la strada del Mattarella bis mentre i Grandi Capi si mandavano ripetutamente a quel paese, si sgambettavano tra di loro, non si capivano, non si facevano trovare, non trovando di meglio che inondare Montecitorio di schede bianche e astenuti e ogni tanto twittare come i ragazzi il sabato sera.
La rielezione di Mattarella non è dunque, come pure in tanti ripetono, una sconfitta della politica. Semmai una sconfitta della cattiva politica. Una sconfitta che si è consumata in Parlamento, dove evidentemente c’è chi ha fatto una politica migliore, e ha vinto.
Ed è anche una sconfitta della cattiva analisi politica, che fino all’ultimo ha continuato ad alimentare una narrazione populista e antistituzionale (e spesso ancora continua, con l’atteggiamento di chi buca il pallone dopo aver perso la partita).
Adesso tutti si intesteranno il risultato. Ma è evidente che i leader hanno subìto questo esito dopo aver giocato a tressette bruciando la presidente del Senato (che ci ha messo del suo e che farebbe bene a trarre le conclusioni di un comportamento arrogante, presuntuoso, per niente rispettoso del ruolo ricoperto), giuristi insigni, ex presidenti della Camera, il capo dei servizi segreti e quant’altro.
Una sorta di «talent show» dove uno vale uno, dove il metodo è sbagliato e la strategia inesistente. Il tutto tra frizzi lazzi e cotillon, una sarabanda penosa che si è trascinata per sei giorni per la gioia del solo Enrico Mentana.
Il risultato è davanti agli occhi di tutti: il centrodestra non c’è più.
E stavolta non è una metafora, è una constatazione.
Dell’alleanza largamente maggioritaria nei sondaggi non si trova più traccia. Ognuno per sé, tra accuse, sospetti e nuovi scenari politici di separazione al momento indecifrabili.
L’assenza di leadership nella coalizione di centrodestra è un fatto: aveva giurato compattezza dall’inizio alla fine, si ritrova in uno stato di deflagrazione.
Per molto tempo non vedremo più su un palco insieme Matteo Salvini e Giorgia Meloni.
Il comunicato della sera di venerdì con cui Forza Italia annunciava che di lì in poi avrebbe trattato per sé, sanciva che non c’è più un Capitano: Salvini non è più il capo di niente, se non della Lega. E non è nemmeno chiaro fino a quando, dopo una tale sconfitta sul campo
Ma pure il paesaggio del «campo largo» nel cosiddetto «fronte progressista» è devastato.
Il surrogato di centrosinistra che Letta sperava di mettere in piedi per le prossime elezioni ha perso una delle due ruote del carro: quel Giuseppe Conte, ex avvocato del popolo, che vive di nostalgia, talmente forte che al momento culminante ha sentito il richiamo della foresta, e ha tentato il colpo con Salvini e Meloni.
Ostacolare l’azione di Mario Draghi il suo unico orizzonte.
Cosa unisca ancora un pezzo del Movimento Cinque Stelle al PD e agli altri partiti dello schieramento è ormai un mistero. Il partito è una galassia indecifrabile, una somma di tanti progetti politici e personali.
Dall’esterno Matteo Renzi si è riconquistato una credibilità, ricucendo i rapporti con il PD e tracciando il sentiero della resistenza alla destra.
Ha pubblicamente rifiutato il baratto fra i suoi voti per la Casellati e il posto di Presidente del Senato. Con grande scorno dei suoi detrattori.
E’ andato a viso aperto, da solo, a dichiarare l’incompatibilità fra il ruolo di capo dei Servizi e la candidatura a PdR: parlando di grammatica istituzionale. E con ciò smontando la mossa a tenaglia che il fronte giallo-verde (Conte-Salvini e Meloni) stava allestendo con l’avvallo di un improvvido Enrico Letta che, con il ritmo da bradipo che lo contraddistingue, è riuscito a posteriori a fare marcia indietro.
Date a Matteo Renzi un proporzionale, e vi solleverà il Centro.
La coppia ristabilita fra Mattarella e Draghi è la garanzia di continuità dello splendido lavoro compiuto dall’attuale governo.
Un lavoro ancora in corso e necessario a completare le riforme che servono per ottenere i finanziamenti europei, oltre che fondamentale per l’esecuzione del piano di ripresa nazionale a pandemia non ancora domata del tutto.
C’è un anno di tempo prima delle prossime elezioni, utilissimo per consolidare la credibilità e l’autorevolezza italiana in attesa delle sfide della prossima stagione politica.
Le scorie quirinalizie ci consegnano una destra antiatlantica guidata da dilettanti allo sbaraglio, una sinistra che durante le trattative sul Colle ha scoperto che il cosiddetto leader in realtà è «il Giuda di Volturara Appula», un M5S balcanizzato dalla stupefacente inadeguatezza dei suoi interpreti (con l’eccezione, è dura ammetterlo, di Di Maio), e un centro che va dai riformisti del PD a quel che resta di Forza Italia frammentato, litigioso e ancora insignificante.
La strada da percorre per dare una consistente prospettiva alla politica italiana è perciò quella di un fronte liberale, europeista, atlantista e democratico contrapposto culturalmente prima ancora che elettoralmente al bipopulismo italiano dei Cinquestelle, degli orbaniani, dei trumpiani, dei putiniani, insomma dei neo, ex, post-fascisti sia rossi sia bruni.
Per arrivarci, in questo anno pieno che manca al voto, sono necessarie tre precondizioni:
- l’area liberal-democratica deve mettere da parte risentimenti e rancori adolescenziali e agire come un soggetto politico credibile;
- il PD deve liquidare la tragicomica linea pro Conte e panchinare i suoi simpatizzanti interni;
- i presentabili di Forza Italia, cui va l’imperituro ringraziamento per aver bocciato la collega di partito Elisabetta Casellati, devono prendere coraggio e salutare definitivamente la coalizione Visegrad
Bisogna prendere atto che il finto bipolarismo si è incenerito e che i gruppi dirigenti dovranno, chi più chi meno, verificare la loro esistenza in vita: vale soprattutto per Matteo Salvini, che ha distrutto il centrodestra, e Giuseppe Conte, il leader più evanescente di cui non si fida più nessuno: il “punto di riferimento fortissimo per i progressisti” è diventato un personaggio che non è più un punto di riferimento nemmeno per i suoi, mentre cresce Luigi Di Maio.
E si può essere certi che dentro la Lega qualcuno domanderà conto a Salvini del disastro combinato: ha rotto con una Meloni ormai super-estremista e al tempo stesso con Forza Italia, data in avvicinamento a quella “Cosa” di centro che, vista l’autodistruzione della destra, può assumere una sua consistenza e guardare con interesse a un PD, peraltro ancora misterioso nelle sue intenzioni di fondo, ma comunque in campo.
Ci aspettano dunque grandi novità nella geografia della politica italiana.
Le pagelle dei protagonisti sono una conseguenza delle considerazioni svolte fin qui.
Salvini: bissa il Papeete e porta a casa la distruzione dell’alleanza di CentroDestra e un malumore crescente dentro il suo partito: citofonare Giorgetti. Zero tituli. 4
Conte: inadeguato, inaffidabile, incapace, inutile. #Coso. 4
Letta E: si inabissa, deve tenere i troppi fronti del suo partito sempre in guerra tra di loro. Poca politica, nessuna strategia. Alla fine mette la testa fuori dall’acqua. “Samorti chi fa onde”. 5/6
Renzi: a viso aperto, ci mette la faccia, sempre. Coraggioso e quasi solitario. Vede l’obiettivo prima degli altri, ci prova sempre. Don Chisciotte. 7
Di Maio: parla poco, non si fa vedere, ma se serve si fa sentire. Democristiano d’antan. “dai che ti ghea pol far”. 6
Meloni: combatte da sola, con la coerenza di una giovane balilla, su un terreno impervio e viscido: il CentroDestra. Orgoglio e pregiudizio. 6
Toti e Brugnaro: fanno le comparse come nei film storici, insignificanti, vaniloquenti, fanno numero. Gianni e Pinotto. 4/5
Draghi: in silenzio, guarda e osserva il can-can. Mette il Governo al riparo andando a colloquio con i “leader”: si toglie di mezzo, li prende per le orecchie e va da Mattarella a chiedergli di accettare il bis. Ipse dixit 7/8
Mattarella: un servitore dello Stato come pochi altri. “Avevo altri piani”. 9