RIGENERAZIONE URBANA Per ricucire lo “sbrego” tra Mestre e Marghera, stazione interrata.
23 Agosto 2022Periferie – 1. Una radiografia
3 Settembre 2022Volendo proseguire una riflessione qui pubblicata, tento di dare qualche altro spunto.
Il merito di aver posto il tema della “società giusta” al centro della riflessione della filosofia politica è, indubbiamente, di John Rawls, con la sua opera del 1971, “A Theory of Justice”.
Il problema è valutare se sia applicabile, alla ricerca di un “minimo comun denominatore” tra così diverse impostazioni culturali, il metodo indicato da John Rawls, l’overlapping consensus[1].
Dice Rawls che in una società dove coesistono plurime “dottrine comprensive ragionevoli” (religiose o laiche), si possono individuare principi di giustizia (giustizia come equità, secondo la definizione data da Rawls stesso) che assicurino una mutua convergenza su valori politici, pur in presenza di persistenti divergenze su valori morali.
Questa convergenza si consegue attraverso il procedimento dell’overlapping consensus, tradotto in italiano con “consenso per intersezione”[2], che, attraverso un progressivo sovrapporre ed elidere, individua un nucleo condiviso di valori politici accettabili da tutte le dottrine comprensive ragionevoli.
Applicato al campo dei diritti umani, in una società “cosmopolita” dove si confrontano un gran numero di dottrine comprensive, l’operazione è assai complessa e di dubbio esito.
Il grande problema che si pone – e al quale la filosofia politica di Rawls non garantisce soluzione – è riuscire a definire cosa renda una dottrina comprensiva “ragionevole”.
All’interno di una società statuale (o di un complesso di stati nazionali che si riconoscano in una comune “cultura”, intesa come “civilizzazione”, in sostanza nelle culture occidentali), può essere abbastanza agevole considerare “non ragionevoli” quelle dottrine che non contemplano il valore della tolleranza.
L’esistenza, ad esempio, di “concordati” tra stato e chiese (come in Italia), pur comportando alcune “discriminanti” tra credenti e non credenti, non arriva a vere “discriminazioni”: un ateo, in Italia, gode di tutti i diritti civili goduti da un credente.
Ricercare, però, una “intersezione” con dottrine che non contemplano la tolleranza, che distinguono in senso discriminatorio tra “fedeli” e “infedeli”, rischia di essere impresa impossibile.
Dovremmo, allora, ritenere tali dottrine “non ragionevoli”?
La mia risposta è affermativa. E mi richiamo, anche qui, alla distinzione di Rawls tra “razionale” e “ragionevole”.[3]
Potremmo richiamare la distinzione di Weber tra “etica della convinzione” ed “etica della responsabilità”, tra chi si preoccupa soltanto di affermare i princìpi in base ai quali agisce e chi si preoccupa delle conseguenze del suo agire; le dottrine “ragionevoli” praticano l’etica della responsabilità.
Il “razionale” giudica in base a “imperativi categorici”, puri; il “ragionevole” in base ad “imperativi ipotetici”, empirici; ciò rende il “razionale”, in certi casi, inidoneo a stabilire un “territorio comune”, perché la presunzione di possedere una verità superiore e indiscutibile può essere perfettamente razionale, ma non è ragionevole, perché empiricamente “escludente”.
E, allora, rinunciamo? Non senza aver esplorato diversi approcci.
Ne citerò due, entrambi espressamente tributari delle teorie di Rawls, quello dell’Eguale Rispetto di Anna Elisabetta Galeotti (che riprende, per altro, una espressione di Ronald Dworkin “equal concerne and respect“) e quello della Creazione di Capacità di Martha Nussbaum, che deve molto, anche, ad Amartya Sen.
L’intento delle due studiose punta a individuare delle condizioni di sviluppo delle libertà[4], fondate sul riconoscimento dell’altro e a indicare quali capacità[5] siano centrali e, quindi, debbano essere garantite; da questa elencazione si possono dedurre possibili punti di convergenza su scala mondiale sui diritti.
Galeotti, in particolare, richiama il liberalismo “neutrale” di Rawls (pur muovendo alcune obbiezioni), che sostiene che “Non c’è dunque bisogno di essere d’accordo su fondamenti religiosi, morali e metafisici: basta preferire (a) la pace al conflitto; (b) la libertà di tutti rispetto a imposizioni della maggioranza su minoranze.”[6]
Galeotti espone anche alcune obbiezioni, la più rilevante sembra essere che “L’ideale del liberalismo neutralista rappresenta, secondo quest’obiezione, un impoverimento della vita della comunità politica (…) per accontentarci solo di regole e procedure che, come il codice della strada, coordinano il traffico tra veicoli fra loro indipendenti.”[7]
È, in sostanza, l’obbiezione del pensiero comunitarista.
Il più “dialogante” dei comunitaristi, Michael Sandel, che pure esprime grande considerazione per Rawls, richiama l’idea aristotelica della “vita buona”, il télos della giustizia.
Dice Sandel: “Se cercare di stabilire quale sia il bene per me implica una riflessione su che cosa sia il bene per le comunità a cui si connette la mia identità, forse l’aspirazione alla neutralità potrebbe essere un errore.”[8]
A me sembra che tale obbiezione confermi la validità del “neutralismo”, soprattutto nella dimensione planetaria; assicurare la convivenza pacifica tra sistemi valoriali diversi e, spesso, inconciliabili, senza cercare improbabili condivisioni, ma limitandosi – e, sì, accontentandosi – di stabilire regole e procedure, mi appare il meglio: nessuno potrebbe sentirsi sminuito, nessuno avrebbe né torto, né ragione.
La mia concezione del liberalismo non implica la “negoziazione” dei valori, ma solo delle regole.
E, soprattutto, non ne verrebbe enfatizzata l’idea di identità, che, come insegna Amartya Sen, può essere all’origine di violenza.
L’approccio di Nussbaum è meno proiettato sugli aspetti “regolamentari”, e più sui contenuti delle politiche; il progressivo sviluppo delle capacità[9] può creare le condizioni per un progressivo avvicinamento tra dottrine comprensive.
Entrambe le teorie sposano, esplicitamente, il liberalismo politico; ed è, questo, il punto di forza che le rende praticabili, e utili, all’interno del confronto tra dottrine ragionevoli e di sistemi politici “contrattualisti”.
Da sole non bastano a superare il “muro” dell’intolleranza e della “non negoziabilità”, in nome dell’immutabilità delle prescrizioni “divine”, della visione islamica.
Per Rawls il compito centrale della filosofia politica è la definizione dell’idea di Giustizia, in un quadro di istituzioni liberali; poiché condivido tale assunto, mi appare assai difficile trovare un consenso “overlapping” con qualsiasi dottrina comprensiva fondata su “assoluti”, siano essi religiosi o filosofico/ideologici.
L’idea di giustizia, in una visione liberale, è il risultato di una “esplorazione razionale” e di una “convergenza ragionevole”; ed, allora, potremmo condividere una concezione, forse riduzionista, forse utilitarista, di chi considera impossibile – e superfluo – definire in termini filosofici “quali” siano i “diritti umani”, ponendo attenzione su “a che servano” i diritti umani.
Trovo convincente quanto dice Veca: ” … i diritti umani servono a minimizzare la sofferenza socialmente evitabile …”[10], una visione “incompleta”, come riconosce lo stesso Veca, ma realisticamente perseguibile.
A patto che i diversi interlocutori, i sostenitori delle diverse dottrine comprensive, accettino la regola non derogabile del dialogo: il fare, ciascuno, un, più o meno breve, cammino verso l’altro. Non è necessario che tutti muovano lo stesso numero di passi; per i figli dell’Illuminismo non dovrebbe essere difficile estendere a tutti l’idea di tolleranza, fare, verso l’altro, il 90 % del tragitto; ma sapranno, coloro che si pensano depositari di leggi divine, fare quel breve 10%?
Nel breve termine, vedo scarse possibilità.
Possiamo soltanto affidarci alla speranza che, a lungo andare, maturi, nelle società islamiche, quel processo di secolarizzazione che ha caratterizzato le civiltà “cristiane” (prima le protestanti, poi, con maggiori resistenze, quelle cattoliche); l’auspicio è che il confronto, reso possibile dalla globalizzazione delle conoscenze, dalla pervasività delle comunicazioni di massa, da Internet, crei un sostegno popolare alle minoranze intellettuali presenti nell’Islam, fino a farle diventare maggioranze.
In questa opera di penetrazione culturale può, e deve, giocare un ruolo determinante l’Europa, seguendo l’invito di Zygmunt Baumann.
“Vista sullo sfondo di un pianeta dilaniato dai conflitti, l’Europa appare come un laboratorio in cui si continuano a progettare gli strumenti per la kantiana unificazione universale del genere umano …“[11]
Il guaio è che l’Europa ha già le sue “gatte da pelare” sul versante della recessione economica e che, anche nella cultura, è preoccupantemente avviata a un regresso verso la versione più volgare del consumismo.
Ed è insidiata, al suo interno, da nazionalismi e regionalismi populistici, che gettano sull’Europa – e sulla moneta unica – le colpe dell’impoverimento economico.
Difficile essere ottimisti.