Le élite e la politica
12 Maggio 2019L’Europa di oggi e le sue età
22 Maggio 2019Si parla molto di Europa, quindi può risultare utile un piccolo viaggio alla ricerca delle origini di questa singolare “idea”: perché l’Europa non è stata l’invenzione estemporanea di alcuni sognatori del Vecchio Continente uscito distrutto dalla Seconda Guerra Mondiale, ma ha radici profonde nel tempo.
Al pari di buona parte del bagaglio culturale, per l’appunto, “europeo” anche qui dobbiamo scomodare gli Antichi Greci. È il poeta Esiodo nel VII sec. a. C., o prima dell’Era Comune come si preferisce oggi, nella Teogonia a dare il via all’uso dei due nomi, Europa e Asia: siamo nel campo del Mito, però, e non hanno ancora alcun riferimento geografico. In questo senso, invece, pare ci si debba piuttosto rivolgere a una popolazione semitica e cioè i Fenici. Europa verrebbe da ereb con il significato generico di “occidente”. Fenici e Greci s’incrociano, però, in quanto Europa sarebbe stato il nome della figlia del re fenicio Agenore, rapita poi da Zeus sotto forma di toro quindi trasportata e amata a Creta. Agenore diventa egizio e padre di Cadmo, il quale dunque sarebbe fratello di Europa, cioè il fondatore della città di Tebe, in Beozia nel cuore della Grecia, in una variante dello stesso mito.
Dall’unione di Zeus-toro ed Europa nascono tre figli in quel di Creta. Il più celebre è senz’altro Minosse, poi vengono Radamanto e Sarpedone. Facendo una piccola divagazione, troviamo che il trono ligneo di Minosse, o così pare, è conservato presso l’Alta Corte di Giustizia all’Aja. Minosse è la tipica figura del re-giudice e così viene ricordato anche da Dante nella Divina Commedia, V canto dell’Inferno. La prima citazione certa in assoluto del nome Europa, comunque, è al verso 251 dell’Inno omerico ad Apollo.
Europa contrapposta all’Asia, invece, in un insanabile conflitto tra libertà e dispotismo, si registra nelle Storie di Erodoto di Alicarnasso, V sec. a.C. e considerato da Cicerone quale “padre della Storia”. Si trattava di un’opinione largamente condivisa già nel mondo ellenico e contrapponeva le virtù, prima delle quali la democrazia, dell’Europa, per altro in sostanza ridotta spesso alla sola Ellade classica, ai vizi dell’Asia, afflitta da debosciato totalitarismo.
Già qui troviamo alcuni degli elementi fondanti dell’idea stessa di Europa e dell’identità europea che, con molta leggerezza, si tendono a negare: una terra dove libertà e rispetto dei valori essenziali rappresentano i tratti essenziali della vita individuale e collettiva.
Aggiungiamoci, però, una caratteristica messa in risalto da Aristotele, Politica VII 1327 b: «I popoli asiatici sono intelligenti e industriosi, ma privi d’animo, e perciò vivono abitualmente in sudditanza e in servitù.» A caratterizzare l’europeo, dunque, sarebbe una qualità morale, l’«animo», che lo porta a dare concretezza al concetto di libertà attraverso la partecipazione del cittadino alla vita politica, «secondo le leggi» e non per arbitrio di un tiranno. Un’idea che si ritrova anche nella riflessione di Platone, per esempio proprio nelle Leggi, il quale non manca di mettere ripetutamente in bocca a Socrate, a cominciare dall’Apologia, l’affermazione per cui lui non può fuggire e sottrarsi alla condanna a morte, anche se ingiusta, per non violare il patto con la città liberamente accettato.
Europa, quindi, non è ancora uno spazio geografico definito, ma è già una dimensione etica perché culturale. Credo sia importante sottolinearlo in un momento come l’attuale in cui ci si accanisce sulle mancanze della costruzione unitaria e non se ne colgono i veri aspetti importanti: i quali non sono né economici e men che meno di minuta amministrazione, ma attengono invece alle sfere dei valori essenziali. E così è sempre stato.
Obliata nel tempo dal prevalere dell’idea universalistica di “Impero”, Romano ben s’intende come elaborata tra i tanti da Tacito e Polibio, e quindi da quella altrettanto e forse ancor più cosmica di Cattolicità, ricordo che il greco καθολικός significa appunto “universale” e come tale non è impiegato solo dalla Chiesa di Roma, il concetto di «europaeus» riacquista attenzione e linfa con l’Umanesimo. Il papa letterato Pio II, il senese Enea Silvio Piccolomini, riprende la tradizionale contrapposizione tra Europa e Asia, libertà contro dispotismo, arricchita dall’essere l’Europa terra d’origine della cultura classica, non solo greca dunque ma anche romana e romana in quanto realizzazione di maggior successo della πόλις ellenica.
Si arriva così alla celebre affermazione del fondatore della scienza politica moderna, Nicolò Macchiavelli, il quale nel 1522, nell’Arte della Guerra, dà voce a una delle convinzioni più radicate nel Vecchio Continente: «Voi sapete come degli uomini eccellenti in guerra ne sono stati nominati assai in Europa, pochi in Africa e meno in Asia. Questo nasce perché queste due ultime parti del mondo hanno avuto uno principato o due e poche repubbliche, ma l’Europa solamente ha avuto qualche regno e infinite repubbliche».
Il Cinquecento e il Seicento, comunque, restano legati alla visione della missione universalistica dell’homo europaeus visto, soprattutto, quale strumento per diffondere l’unica verità cristiana e con essa la sola possibilità di salvezza. È il Settecento a cambiare in profondità tale approccio, riproponendo la missione specifica dell’Europa nel Mondo quale fucina della democrazia, della divisione dei poteri, del loro equilibrato bilanciamento. A differenza del resto del Pianeta si descrive, lo fanno nl 1721 Montesquieu nelle celebri Lettres persanes e nel 1751 Voltaire in Le siècle de Louis XIV, il Vecchio Continente come una specie di grande confederazione naturale di stati diversi per storia e regime, ma in fondo retti tutti dagli stessi principi.
Sorprende un po’in tali alfieri dell’illuminismo laico trovare ancora nel cristianesimo la radice comune unitaria, ma credo questo dipenda dal fatto che, per riuscire ad affermarsi nell’Impero di cultura greco-romana, la nuova religione aveva dovuto ricorrere agli strumenti della riflessione filosofica, realizzando una sintesi sostanzialmente nuova.
L’Ottocento vede il trionfo dell’idea nazionale, inevitabilmente in rotta di collisione con quella di Europa: il trionfo del “particolare” sul “generale”, dell’interesse circoscritto e di alcuni su quello universale e potenzialmente di tutti acuisce le fratture naturalmente presenti nel corpo del Vecchio Continente a causa della diversità linguistica, culturale, storica. Tuttavia, un pensatore oggi dimenticato come Giuseppe Mazzini descrive il destino della Giovine Europa in questo modo, Ai giovani d’Italia, 1859: «L’insieme di tutte quelle missioni compiute in bella e santa armonia pel bene comune, rappresenterà un giorno la patria di tutti, la Patria delle Patrie, l’Umanità». E pluribus unum, verrebbe da dire se il motto non fosse quello degli Usa… latino per altro, fatto che di per sé dovrebbe indurci a qualche riflessione.
Il secolo dell’europeismo come pensiero politico compiuto, comunque, è il Novecento. È il francese Aristide Briand, un socialista rivoluzionario poi radicale, l’autore di un progetto per gli Stati Uniti d’Europa nell’immediato primo dopoguerra. A farlo fallire sarà la nascita della Società delle Nazioni, guarda caso una creatura del presidente americano Woodrow Wilson. È bene tenere a mente questo precedente: chi governa a Washington, infatti, si dimostrerà sempre ostile a qualsiasi ipotesi di unificazione europea. Ieri e oggi. Si potrebbe parlare di una “costante geopolitica di lungo periodo”.
Chi abbia presente la riflessione americana in materia, d’altronde e valga per tutti l’esempio di Nicholas J. Spykman, non si meraviglia affatto. Un’Europa unita rappresenterebbe un rivale di gran peso per chiunque, a cominciare dagli Usa, aspiri al Dominio del Mondo. Per almeno tre ragioni. Il suo peso economico-militare, l’egemonia linguistico-culturale, la posizione geografica centrale che le permette sia di acquisire il controllo del centro della terra, l’Hearthland di Halford J. Mackinder, che di buona parte della vitale fascia marittimo-costiera, il Rimland di Spykman. Per questo gli Usa sono strutturalmente avversari di ogni tentativo di costruzione comune europea. Prima e dopo Trump.
Fallito il tentativo di Briand e scoppiata la Seconda Guerra Mondiale, quella che sancisce il declino politico dell’Europa ed è una delle molte colpe dei totalitarismi nazi-fascisti, nel 1941 a Ventotene Enrico Rossi e Altiero Spinelli scrivono il Manifesto per l’Europa libera e unita. Siamo in presenza di un salto di qualità rispetto a ogni ipotesi precedente perché non solo si delinea una Nuova Europa dei Popoli, democratica e federalista, ma la si fonda su una serie di essenziali valori non negoziabili. La costruzione, insomma, ha un’anima e ben definita. Dovrebbe essere alla base dell’attuale Unione.
A interferire, però, oltre alle ben note opposizioni internazionali, Usa e Urss in particolare interessate solo a conquistarsi in proprio il Dominio del Mondo, anche il persistente morbo nazionalista. Perché è chiaro, per funzionare ogni e qualunque tentativo unitario non può che partire da una sostanziale cessione di sovranità e un passo indietro di qualunque egoismo localista. La visione confederale, che ebbe in Charles de Gaulle e Winston Churchill due importanti esponenti, sembrò allora offrire una valida risposta. In definitiva l’Unione come la vediamo oggi è nata e si è sviluppata proprio sulla base di persistenti stati nazionali, che mantengono intatto il nocciolo della loro indipendenza.
L’idea di Europa, insomma, è antica quanto la cultura e la civiltà dei popoli che hanno abitato e vivono ancora in questa singolare penisola del grande Continente Centrale del Pianeta. È parte integrante della loro identità anche se spesso hanno tentato di rinnegarla, cercando di confinarla in qualche angolo remoto della memoria. Eppure ritorna sempre, con prepotenza direi, perché rappresenta l’inevitabile pietra di paragone per ogni nuovo sforzo d’innovazione politica e sociale… e allora, invece di rinunciarvi forse è il caso di sfruttarne le enormi potenzialità: non credete?