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29 Agosto 2023Il geografo, come talvolta senza falsi pudori mi definisco, ha molte virtù, tra cui quella di vedere un territorio nel suo insieme, dall’alto, con l’occhio del falco o del grifone. Ma difficilmente riesce nell’impresa di vedere nel dettaglio, nelle pieghe, cosa succede ‘dentro’ o ‘sopra’ ai territori; e soprattutto il geografo ha visioni magari corrette ma a volte datate, quasi mai in tempo reale. Una visione molto più attenta e soprattutto aggiornata riesce invece bene a Giannandrea Mencini, affermato saggista ambientalista, con molte pubblicazioni al suo attivo, che in un bel libro uscito alcuni mesi fa (BIO AVVERSITA’ Il vizio delle monoculture nelle terre alte,editore Kellermann) coglie in alcune diverse casistiche, avvertendone il pericolo, le dirompenti trasformazioni in atto in certi paesaggi della nostra Italia: la diffusione esagerata delle monoculture e il loro imporsi aggressivo in parti assai diverse del territorio nazionale. Diverse, ma accomunate nell’offrirsi alle miopi logiche dell’ottimizzazione, con primo, e a volte unico, obiettivo il profitto.
Giannandrea in questo libro corposo espone sei ‘casi di scuola’ che cito brevemente: il vigneto del Prosecco/Glera in tutto il Veneto, in molto nordest e nell’Alta Marca Trevigiana, il meleto del Trentino, e in particolare della Val di Non, il noccioleto del Viterbese, i pascoli del Cadore in due situazioni diverse. Affianca però loro anche alcuni casi rigenerativi in controtendenza, nel Molise e nell’Alpago.
E già in questo elenco ci sono sorprese, almeno per me. Dei Noccioleti laziali ne sapevo ben poco, così come ci si può stupire che anche il pascolo d’alta quota possa essere in odore di sfruttamento anti ecologico, dato il pregio estetico che comunque siamo portati ad attribuirgli. Molto noti sono invece i primi due casi citati, anche per l’impatto visivo piuttosto evidente e per la celebrità dei prodotti.
Il Prosecco poi è sulla bocca di tutti per l’esplosione negli ultimi anni del suo fatturato e per l’introduzione nei beni UNESCO della sua zona DOCG. E già questa distinzione è materia per il libro, che ne spiega bene la genesi. Essendoci stata l’estensione del DOC Prosecco a buona parte del Nordest da Trieste a Vicenza, passando per Belluno, i produttori della zona dello storico ormai pluridecennale lancio/rilancio del Prosecco, quelli di Conegliano Valdobbiadene per capirci, hanno preteso e ottenuto nel marchio l’aggiunta nel finale al termine ‘controllata’ del termine ‘garantita’, per distinguersi. Eppure nelle testimonianze del libro entrambe le zone sono accomunate nella cosiddetta “prosecchizzazione”, un evoluzione/involuzione che le accomuna nella stessa sorte: vignetizzazione spinta, a sfavore del bosco sempre più mangiato (nel DOCG), o di altre colture nel resto del Veneto, impostazione ‘industriale’ delle piante e dei vigneti e uso di pesticidi. Tutte cose che emergono dalle testimonianze della gente, comune, fatta di cittadini attivi, e specializzata, fatta di esperti sensibili.
Perchè anche questa è una caratteristica dell’accurata opera di Giannandrea, il dare ampio spazio e voce alle popolazioni coinvolte e a testimoni qualificati. E’ ciò che sottolinea nella presentazione del volume la docente universitaria Letizia Bindi, quando ricorda come nel libro si dà voce a piccoli produttori che si oppongono alla logica del profitto per il profitto, per “coltivare condividendo: praticare un’agricoltura sostenibile” E, aggiungo io, più rispettosa della Biodiversità, il convitato di pietra di questo testo, sempre un riferimento nel bene e nel male, come chiaramente indica il titolo che ne fa un’amara parafrasi.
Stessa situazione, se si vuole ancor più spinta del Prosecco, in Val di Non con le mele, anch’esse primo anello di una filiera agroalimentare che ha come motto ossessivo il guadagno e comunque il “far quadrare i conti”, come si lamenta un altro testimone di quel luogo, tenacemente attaccato invece al biologico; e che ricorda come la frutticoltura tradizionale fosse integrata con il prato e con l’allevamento con piante più molto ampie e rade. Si evince dalle sue parole che forse è possibile farli quadrare, i conti, anche con agricolture alternative, mettendo, nei conti, il non avere profitti stellari (la nota è mia, perchè è poi vero che di riffe o di raffe devono comunque quadrare). In ogni caso qui il capobastone del monopolio del settore è Melinda, e hai detto niente, a cui questi produttori coraggiosi hanno proposto/imposto una quota di biologico. “Quello che manca alla Melinda è il crederci”, dice uno di loro. Anche se poi ammettono che senza la Melinda non ce l’avrebbero fatta a convincere altri produttori riluttanti, a cui si cerca di spiegare che il biologico “non lo si fa per i soldi, ma per l’ambiente”.
Il discorso continua in una regione simbolo dell’ “Italia dimenticata”, quel Molise che ne è una sintesi, in quanto Appennino e per giunta meridionale, due attributi che dicono tutto sulla condizione di partenza di emarginazione socio culturale, un vuoto geografico nella mappa mentale di molti nostri connazionali. A dispetto di un paesaggio geografico bellissimo, molto verde e rigoglioso. Qui però l’esplorazione di Giannandrea si dedica agli sforzi, ripagati, di impostare attività legate all’agricoltura, dove la biodiversità e il suo mantenimento stanno invece seduti a capotavola. Numerosissime le attività citate attraverso l’incontro con un sindaco locale, da cui emerge l’obiettivo altrettanto prioritario: ripopolare i borghi con attività sostenibili, economicamente ed ecologicamente, un’accoppiata che sembra possibile. Anche qui c’è la mela, legata ad un’antica tradizione, ma che differenza con il Trentino! Giannandrea ci racconta che, avvicinandosi camminando ai terreni arborati nel Molise di Isernia, non aveva scorto gli alberi di mela tanto erano integrati nel tutto, un buon segno, certamente.
In Molise c’è poi l’incontro con Famiano Crucianelli, per spostare il cannocchiale sul Viterbese dove invece il tema è la monocultura del nocciolo, che Famiano conosce bene e di cui parla con la stessa saggezza che ricordo di lui. E’ infatti una figura a me ben nota, legata alle mie scorribande giovanili nella sinistra, diciamo, piuttosto radicale, com’era il Manifesto e il successivo PDUP di un’era geologica fa. E lui, Famiano, allora era un raro caso di ‘Ircocervo’, cioè un moderato ed equilibrato dentro ad una ultrafaziosa sinistra radicale, uomo capace di spostare i suoi su posizioni iper moderate ( capolavoro, lo ricordo bene, il suo voto al governo Dini in dissenso dal gruppo di Rifondazione). Anche qui con Crucianelli la storia è sempre la stessa già vista in Trentino e in Prosecco. La nocciola è nella tradizione del Viterbese, ma ovviamente nella tradizione conviveva in buona ed equilibrata compagnia con molto d’altro. La riconversione a monocoltura ha espulso il “molto d’altro”, con ovvie ripercussioni sulla fertilità del suolo. Qui il “dominus”, come lo chiama Giannandrea, è la Ferrero, dita colossale con base molte latitudini più a nord, a cui certo non bastano i noccioleti dell’alta Langa. E la lotta con certe logiche è dura. Crucianelli per esempio, con evidente buon senso, parla di cercare di trattenere la filiera in loco anche con la trasformazione del prodotto, che invece avviene ancora al nord, in Francia e ad Alba, dove la Ferrero governa il suo impero (ad Alba per esperienza personale il profumo/olezzo di Nutella è pervasivo ovunque, anche mentre ti gusti il Barolo e i tartufi, tanto per far capire chi comanda lì e su cosa). E poi c’è anche nel Viterbese il fenomeno dell’alienazione delle proprietà verso chi possiede capitali per investimenti, scindendo lo storico binomio contadino-proprietà. Insomma c’è anche qui l’immagine di una dura lotta per una sensata transizione ecologica, ma si capisce la volontà di andare avanti, con pragmatismo, Crucianelli docet. Anche perchè questa sensibilità sta ‘bucando’ nell’opinione pubblica, se è vero che ha raggiunto e fatto riflettere anche un sincero quanto radicale sviluppista come il sottoscritto ( i geografi spesso lo sono, perchè affascinati dai processi globali ed io sviluppista lo sarò ancora, non abiuro, ma da oggi lo sarò ‘con juicio’, lo prometto).
Da ultimo i pascoli, dove, come già anticipato, è difficile immaginare cattiverie ambientali, visto il loro non impatto visivo, che le altre cattiverie raccontate dimostrano sfacciatamente con chiarezza. Eppure.
Eppure, incontrando con Giannandrea un vecchio navigatore dell’ambientalismo, il prof. Lorenzo Bonometto (uno dei più qualificati, nonostante un certo suo radicalismo di segno opposto al mio), emerge anche un’altra realtà meno idilliaca. Bonometto ha facilità a spiegare, a proposito del Pian dei Buoi, un luogo storico per l’attività di pascolo in Cadore, le possibili conseguenze negative dell’attività dei pascoli contemporanei, laddove sono rimasti; e quindi anche i danni derivati da una tipica attività estensiva, che di per sé dovrebbe essere leggera. Invece oggi c’è scarsa cura, spiega Bonometto, forse per risparmiare mano d’opera (ndr); e quindi bestiame ‘mollato’ a far quel che vuole, senza indirizzo e luoghi di raccolta. E se fa quel che vuole scarta ciò che non gli piace, a detrimento di un equilibrio ecologico che si basa su tutto, gradevole e sgradevole. E questo avviene per le esigenti razze attuali, mentre forse razze più rustiche e meno pesanti sui suoli si adatterebbero meglio. E poi ciò che manca è la rotazione temporale dell’alpeggio di un tempo, foriero di equilibrio e attenzione a tutte le esigenze ecologiche nel loro insieme.
Attenzione ai temi dell’ allevamento si registrano infine anche nel vicino Alpago, dove nel libro si sondano le virtù del ripristino dell’allevamento ovino della storica razza “Alpagota”. Non bella da vedersi nelle musane degli esemplari, pare, ma che inserita in un circuito di produzione integrato (carne, latte, lana) ha costituito il primo presidio Slow Food del territorio bellunese, richiamandosi nettamente ad un’antica tradizione.
Si chiude quindi il testo con un’esperienza positiva che può fare scuola e immette ottimismo in quadro complessivo che nel libro emerge anche come fosco e quantomeno enigmatico.
In definitiva quello che ho raccontato di questo volume è solo una parte. Nei dettagli si avventuri il lettore curioso. Posso solo dire che oltretutto si tratta di un buon esempio di giornalismo d’inchiesta, un genere molto diffuso a livello televisivo, ma piuttosto raro nell’editoria. E questo indubbiamente è un altro merito dell’autore, che aggiunge quest’opera ad altre condotte con lo stesso stile e rigore.
Giannandrea Mencini BIO AVVERSITA’ Il vizio delle monoculture nelle terre alte, editore Kellermann