
Fuga dalla Giustizia
28 Ottobre 2024
L’unanimistallo
28 Ottobre 2024Il libro “Il Posto del Lavoro”, del giugno 2024, è una raccolta di dati ed analisi su come viene visto il posto di lavoro nella vita dei cittadini, curata da Daniele Marini, professore di Sociologia dei Processi Economici a Padova, e Irene Lovato Menin, psicologa e assegnista di ricerca a Padova.
Una ricerca basata sulle risposte degli interpellati, divisi per varie categorie lavorative e per coorti di età, con particolare attenzione alla Generazione Z (i nati a cavallo del nuovo secolo), che rivelano le trasformazioni intervenute nell’atteggiamento verso il lavoro, talvolta divergenti dalle rappresentazioni che delle varie situazioni lavorative diffondono le organizzazioni di mediazione come i sindacati ed i partiti.
Consideriamo alcuni dei tanti temi oggetto di valutazione da parte degli intervistati nella parte curata da Daniele Marini, tralasciando in questa occasione le riflessioni altrettanto interessanti della psicologa Lovato Menin.
Risaltano cambiamenti nei vari atteggiamenti nei confronti del lavoro, se consideriamo il desiderio di autorealizzazione, l’atteggiamento nei confronti della flessibilità, il desiderio di progressione nella carriera lavorativa. Rivolgiamo alcune domande al professor Marini, ad approfondimento di alcuni risultati della ricerca.
Professor Marini, emerge dalle interviste come il lavoro non sia più considerato un obiettivo di assoluta preminenza, ma sia accompagnato da dimensioni autorealizzative variamente perseguite come il tempo libero, la famiglia, l’attività sportiva; il lavoro è visto inoltre come percorso di auto-valorizzazione, che comporta occasioni di cambiamento di ambiti lavorativi. Quest’ultimo atteggiamento non sembra essere apprezzato dalle categorie imprenditoriali, che evidenziano il processo di formazione di dipendenti che sono propensi prima o poi a cambiare azienda. Quale atteggiamento al riguardo si aspetterebbe dagli imprenditori?
Siamo di fronte a un cambiamento culturale profondo e che affonda le radici ancora prima dell’esperienza della pandemia. Il lavoro rimane una dimensione centrale per gli individui, ma non lo è in modo esclusivo o assolutamente prioritario, com’era generalmente per le generazioni precedenti. Quindi, soprattutto le giovani generazioni cercano opportunità lavorative che permettano di combinare l’impegno del lavoro con gli altri pezzi della propria vita, ritenuti importanti. Questo spiega perché i/le giovani si identificano con il “posto” del lavoro, ma in modo relativo. Perché il “posto” che il lavoro occupa nell’orizzonte dei valori è diverso da prima. Quando c’è un mutamento di questa portata la questione è riuscire a comprendere i nuovi codici simbolici, i nuovi linguaggi di cui le giovani generazioni sono portatrici. Quindi, lo sforzo che – in questo caso gli imprenditori – devono fare è notevole, perché significa ricombinare anche organizzativamente l’impresa, in modo tale che cerchi di assecondare le nuove esigenze, che per altro anche le altre generazioni cominciano a condividere. È una vera e propria rivoluzione quella in corso. Che le imprese “necessariamente” devono affrontare. Pena perdere di attrattività.
Sulla ricerca del lavoro: le informazioni amicali, il “passaparola” è lo strumento ritenuto più efficace; per il resto sussiste un bilanciamento nelle risposte degli interpellati tra chi preferisce i Centri per l’impiego pubblici e chi preferisce le agenzie private; ritiene questa rappresentazione un indice di carenze organizzative e informative?
Dobbiamo considerare che in Italia non esiste un sistema di orientamento scolastico e professionale che aiuti famiglie e giovani a comprendere cosa sta accadendo nel mondo del lavoro, al di là delle professioni oggi maggiormente richieste. Certo, non mancano singole e pregevoli iniziative organizzate dalle scuole, ma che più spesso si riducono a momenti di “informazione”. L’attività di orientamento è un’altra cosa: è un percorso pluriennale che sospinge le persone a sperimentare il lavoro finché si studia, anche attraverso le forme di alternanza scuola-lavoro. Mancando in modo diffuso e sistematico tutto ciò, le imprese e i singoli si affidano alle proprie conoscenze, alle reti e alle risorse di cui dispongono. Va da sé che si crei un “disallineamento informativo” fra le conoscenze possedute e le occasioni di lavoro. E questo (in parte) spiega perché molti posti di lavoro rimangono disattesi, nonostante siano ben remunerati. Di più, in carenza di informazioni corrette si tendono a riprodurre i vecchi stereotipi sulla divisione fra lavori manuali e intellettuali, piuttosto che sulle differenze di genere, confermato ancora oggi dal fatto che i percorsi formativi di natura scientifica sono sostanzialmente disertati dalla componente femminile.
Da altre ricerche sembra che, al momento della contrattazione per l’assunzione, la possibilità di strappare condizioni migliori agli imprenditori riguardi le fasce più qualificate della forza lavoro rispetto a quelle meno qualificate: condivide questa polarizzazione nel potere contrattuale?
Direi di no, soprattutto nella fase d’ingresso sul mercato del lavoro. I mestieri più richiesti fra quelli più operativi (che normalmente chiamiamo “manuali”) hanno condizioni molto diverse. Nei settori socio-sanitari sono sottopagati, così come fra quelli della Gig economy. In diversi altri nei settori manifatturieri sono pagati in modo significativo. Diversa ancora è la condizione dei laureati: tendenzialmente hanno inizialmente percorsi lavorativi discontinui, precari e sottopagati. Mentre, come dimostrano le ricerche, nel lungo periodo ottengono posizionamenti più rilevanti di chi possiede solo un diploma. Detto ciò, oggi sono le nuove generazioni – al termine di un colloquio di selezione – a dire all’impresa “le farò sapere se la sua offerta mi va bene”, non il contrario. Quindi, potremmo a ragione sostenere che oggi il “potere contrattuale” ha spostato il suo peso più sull’offerta, che sulla domanda.
La flessibilità: una condizione che ha pervaso il mondo del lavoro, nei cui confronti si registra tra gli interpellati una quasi parità di posizioni, di favorevoli e contrari. Quanto influiscono nel favorire l’uno o l’altro atteggiamento le condizioni ambientali, cioè l’attaccamento o meno al proprio ambito geografico o alla rete personale di amicizie e frequentazioni?
Anche fra i miei studenti/esse quando chiedo come definirebbero il lavoro, negli anni precedenti mi rispondevano “precario”, mentre da prima della pandemia la risposta è “flessibile”. Non si tratta solo di un cambiamento linguistico, ma semantico. Oggi le nuove tecnologie di cui disponiamo e che hanno invaso la nostra vita sono all’insegna della flessibilità. Tutto, dagli orari di lavoro agli stili di vita sono diventati flessibili. Per dirla con Bauman, si potrebbe dire “fluidi”. La trasversalità di questo fenomeno non ha eliminato le disuguaglianze sociali ed economiche, ma le ha rimodellate e ridefinite all’insegna dell’individualizzazione. Ciò non toglie che quelle ascritte (genere, classe sociale, ambiente sociale) abbiano ancora un peso significativo, ma non in modo deterministico.
Sull’alternanza scuola-lavoro (l’attuale PCTO “Percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento”, per la cui attuazione il I° governo Conte (2018-2019) dimezzò i fondi); per il quasi 90% degli occupati riscuote approvazione, viene condiviso l’obiettivo di aiutare le nuove generazioni nella conoscenza dei mondi lavorativi; tuttavia l’alternanza viene contestata da organizzazioni di docenti in quanto sottrarrebbe tempo all’apprendimento scolastico ed alla formazione.
È il frutto della ancora attuale divisione concettuale – che ha origine ancora nella riforma Gentile di un secolo fa – fra il “manuale” e l’”intellettuale”, dove la seconda dimensione è ritenuta più importante (in tutti i sensi) rispetto alla prima. In più c’è un pregiudizio sul lavoro in quanto tale, ritenuto oggetto di sfruttamento, non di crescita personale e professionale. Di qui, la forte resistenza a immettere nel percorso formativo delle giovani generazioni l’esperienza guidata del lavoro. Sarebbe sufficiente vedere il livello di gradimento e di crescita personale/professionale dei/delle giovani generazioni che frequentano i corsi degli enti di formazione professionale e sperimentano la formazione “duale” (ovvero l’apprendimento in contesto lavorativo, in stile tedesco) pe rendersi conto di come un’opportuna educazione al lavoro costituisca un elemento implicito di orientamento per le persone.
Un cambiamento rilevante riguarda l’idea di giustizia sociale legata al lavoro: il criterio del merito risulta ormai accettato (sia nella versione più decisa, secondo cui i più preparati professionalmente devono guadagnare di più, sia nella versione ponderata secondo cui a tutti devono essere data una adeguata preparazione professionale, da cui ognuno debba attivarsi per il proprio avanzamento nella carriera); solo un 5% circa parteggia per una paga egualitaria indipendentemente dalla preparazione professionale. Sembra che questo cambiamento non sia adeguatamente divulgato dagli apparati di mediazione, sindacali o politici.
Concordo: è un altro degli aspetti di cambiamento culturale che né le forze politiche, né quelle sindacali hanno compreso. Se escludiamo l’avvento dei Premi di Risultato (PdR) che si stanno sempre più diffondendo là dove la contrattazione di secondo livello è presente (quindi, nelle aziende più strutturate e dove il sindacato è presente), il risultato è che i/le lavoratori/trici negoziano individualmente nei posti di lavoro coi datori di lavoro. Elidendo, così, i tradizionali criteri solidaristici che erano tipici dell’azione sindacale di un tempo.