“Pacchetto” o “pacco”?
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27 Gennaio 2014In attesa di un documento più dettagliato è opportuno soffermarsi sul recente Jobs Act, o meglio la riforma del mercato del lavoro, consule Renzi. Perché è importante? In primo luogo si tratta di un settore di policy che ha connotato l’immagine dell’attuale segretario durante le primarie 2012: l’allora Sindaco per attribuirsi un profilo di rottura rispetto al passato aveva fatto proprie le proposte di Pietro Ichino (già co-autore del programma di Veltroni, un’era geologico-politica fa). In secondo luogo, nell’ormai famosa lettera della BCE al Governo italiano, la riforma del mercato del lavoro, sia dal punto di vista della contrattazione collettiva, sia dal punto di vista delle norme su assunzioni e licenziamenti, risultava una delle misure strutturali essenziali per dimostrare una rinnovata credibilità internazionale del nostro Paese.
In ogni caso, non è una riforma che genera immediati risultati e pertanto non può essere considerata come una misura di rapido intervento, come, ad esempio, la diminuzione del carico fiscale. Ma rimane una riforma essenziale per risolvere il dualismo del mercato del lavoro e la scarsa capacità di attrazione di investimenti dell’Italia.
Ora, il Jobs Act affronta la tematica del lavoro in maniera molto ampia: nelle tre parti in cui è stata divisa la sintesi del progetto, la parte relativa alla regolazione del mercato del lavoro viene dopo quella chiamata “Sistema”, che indica alcune questioni rilevanti per l’impresa italiana, come la riduzione dei costi dell’energia e dell’IRAP, e quella definita come “Nuovi posti di lavoro”, che dovrebbe prevedere singoli piani industriali per alcune settori come “nuovo welfare”, “energia”, “green economy”, ecc….
Evidentemente si tratta di spunti di riflessione che necessitano di approfondimenti e chiarimenti: d’altra parte il neo segretario ha presentato questo documento proprio al fine di aprire un dibattito.
Però a noi in questo momento interessa un aspetto politicamente rilevante: con le proposte recenti si è discostato dai progetti che ricalcavano le idee di Pietro Ichino, considerato che fu uno dei tratti distintivi della proposta programmatica di Renzi ed uno degli elementi che ne avevano messo in rilievo il coraggio nell’affrontare impostazioni sul mercato del lavoro all’interno del PD spesso troppo dipendenti dalla visione della CGIL?
La ratio del progetto renziano non è molto diversa da quella di Ichino, ma è più limitata. Da studioso prima ancora che da politico, Ichino basava la propria riflessione sulla capacità dell’Italia di attrarre investimenti esteri e ne individuava i limiti nella lentezza della giustizia civile e della burocrazia e in un mercato del lavoro mal funzionante, complicato e caratterizzato da un sistema di relazioni industriali non adeguato ai tempi. Ne sintetizzava lo spirito nella frase “Hire your best employer!” di blairiana memoria: mettere in condizione gli investitori esteri di investire nel Paese. In particolare sosteneva la necessità di una semplificazione del codice del lavoro; la creazione di un contratto unico a tempo indeterminato da applicare ai nuovi assunti, in cambio della non applicazione dell’art.18 dello statuto dei lavoratori per quanto riguardava il giustificato motivo oggettivo; il contratto di ricollocamento che obbligava il lavoratore licenziato a partecipare a tempo pieno a processi di riqualificazione, con il costo sociale del licenziamento accollato dall’impresa.
Che cosa riprende il Jobs Act di quest’approccio? L’idea di fondo rimane: semplificazione delle norme, la riduzione delle varie forme contrattuali (anche se sembra spingersi verso il contratto a tutele crescenti indicato dal progetto Boeri-Garibaldi) e servizi di assistenza nel mercato del lavoro più efficienti. Affronta in maniera più defilata, invece, le questioni relative alla pubblica amministrazione o le tace, come nel caso della riforma della giustizia civile, probabilmente per non alimentare allarmi nella propria constituency. Paga questo debito anche nei confronti del sindacato, in parte assumendone la retorica che lo ha caratterizzato in questi anni: la battaglia contro le “quaranta forme contrattuali” esistenti oggi in Italia ne è la conferma.
Certamente, ci aspettiamo che al più presto tali proposte trovino spazio in articolati di legge. O che almeno si riprendano disegni di legge già esistenti.
Perché dubitare è lecito. Infatti, il punto è che nella battaglia politica che Renzi sta facendo, il Jobs Act potrebbe apparire né più né meno come un ornamento estetico.
Vero è che il segretario deve dimostrare di rappresentare una rottura rispetto al passato e deve are l’idea di rapidità e cambiamento. E certamente non è semplice “ammuina”: in effetti gli va riconosciuto di continuare a sostenere una certa idea del mercato del lavoro, poco digeribile a sinistra.
Se l’obiettivo principale di tutto ciò è però soprattutto politico e comunicativo, qualche problema lo solleva.
Certo, determinare l’agenda politica del Paese significa riuscire a fare quello che molti leder del PD hanno tentato di fare: imporre i temi all’attenzione del dibattito politico e rendere il Partito Democratico il fulcro del sistema politico italiano. In tal senso Matteo Renzi sta riuscendo nella sua opera.
Il diavolo però sta nei dettagli. Perché la politica dell’annuncio serve ma poi si devono anche realizzare le cose. E’ a capo di un partito che guida la maggioranza parlamentare: se ha intenzione di cambiare le regole del mercato del lavoro, proponga una riforma del lavoro ed incalzi il governo sulla questione. Il sospetto che voglia cuocere il governo Letta a fuoco lento è invece molto forte.
Aspettiamo e vediamo che cosa accade. Chi lo ha sostenuto lo ha fatto perché avviasse le riforme profonde di cui questo Paese ha bisogno. In un famoso congresso del Labour, rivolto alla componente di sinistra del suo partito, l’allora leader laburista Neil Kinnock disse “Non si può giocare con il lavoro delle persone”. Ecco speriamo che Renzi non scherzi e tutto ciò non sia solo un “gioco”.