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3 Aprile 2025“Non inizierò guerre, ma le fermerò”. Così dichiarava Donald Trump all’indomani della sua vittoria alle elezioni presidenziali negli Stati Uniti: dichiarava, e dichiara, di volere la pace, ponendo fine a conflitti come quello in Ucraina e in Palestina, senza però indicare con quali strategie né a quale prezzo raggiungerla, la pace.
Durante il suo discorso d’insediamento nel 2025, ha sottolineato che il successo della sua amministrazione sarà misurato dalle guerre che riuscirà a evitare e da quelle che terminerà.
Già durante la campagna elettorale del 2024, Trump aveva spesso ripetuto che, se fosse stato lui presidente, la Russia non avrebbe mai invaso l’Ucraina: si tratta di un’affermazione evidentemente non dimostrabile e priva di fondamento, equivalente a meri divertissement di pensiero e retorici tipo “Se fossi andato allo stadio, la mia squadra del cuore avrebbe vinto”.
Certo, condire la propria campagna elettorale con affermazioni indimostrabili come questa non giova alla credibilità del candidato.
Ancora, Trump sosteneva che, una volta rieletto, sarebbe stato in grado di ristabilire la pace nell’arco di ventiquattro ore.
Non serve dilungarsi a dimostrare come questa promessa o previsione non si sia avverata.
Sta, Trump, cercando di far terminare la guerra tra Russia ed Ucraina? Forse sì, ma ai danni della parte più debole, l’Ucraina; questa sua strategia ha avuto l’apice nella brusca conclusione della nota conferenza stampa nella sala ovale a cui era stato invitato lo stesso Zelenskyy, con Trump che ha rimproverato al suo omologo di non essere abbastanza grato per la potenza di fuoco degli Stati Uniti che ha contribuito a respingere l’invasione della Russia, e conseguentemente nella sua decisione di interrompere il flusso di tutti gli aiuti militari all’Ucraina: posizione che ha scatenato satira e derisione da parte dei commentatori statunitensi (si veda per esempio https://www.youtube.com/watch?v=CUpOMSJ1MdU).
Pare che ora Trump stia cercando di negoziare direttamente con la Russia e di escludere l’UE dalle discussioni, con la chiara finalità di marginalizzare dell’Europa nelle decisioni geopolitiche globali; ha anche adottato un approccio critico nei confronti della presenza militare americana in Europa.
Salvo poi dichiararsi –forse per dimostrare al mondo che il pallino in mano continua a tenerlo lui – “molto arrabbiato” con lo stesso Putin e minacciare ritorsioni se non si comporta come lui vorrebbe, il tutto con eloquio ed atteggiamento che ricorda molto quello dei bambini della scuola materna: e come non ricordare, a questo proposito, il suo infantile rifiuto a lasciare il ruolo quando, al termine del mandato precedente, risultò sconfitto alle elezioni?
Non sempre, tuttavia, si riesce a leggere una coerenza nelle sue scelte strategiche in merito alle guerre in corso. Va detto infatti che la sua psicologia malata non è sfuggita ai commentatori anche nel corso del suo primo mandato, tant’è che per il regista regista Dan Partland “il presidente americano è inadatto e pericoloso per il ruolo che occupa. Afflitto da narcisismo maligno, dimostra una personalità sociopatica, paranoica e piena di sé. Il suo distacco dalla realtà lo rende spietato e inaffidabile” (https://www.linkiesta.it/2020/10/trump-psicologia-america-narcisismo-maligno/), mentre altri esperti di salute mentale lo definiscono “un narcisista maligno, sociopatico, xenofobo e misogino” (https://www.spazioalfieri.it/unfit-psicologia-donald-trump/).
La difficile lettura delle sue decisioni può dipendere in parte dal suo carattere eccentrico ed imprevedibile, ma soprattutto è probabile che le sue decisioni siano guidate principalmente da scopi elettorali e di ego: è infatti risaputo che una delle sue ambizioni è ricevere il premio Nobel per la pace.
Per due volte, durante il primo mandato di Trump, un politico norvegese, Christian Tybring-Gjedde, aveva proposto la sua candidatura. Ora però sembra che le cose siano cambiate, infatti, a detta dello stesso Tybring-Gjedde, Trump “sta dettando condizioni di cui gli europei sono molto spaventati e sono davvero preoccupati per quello che ne verrà fuori”. I negoziati con l’Ucraina sembrano essere per ora falliti, vanificando la promessa di Trump di porre rapidamente fine alla guerra, insieme alla sua migliore occasione di vincere un premio che ha in mente da anni. Ma la paura è che la sua enorme ambizione di vincere il premio, dettata non tanto da un reale desiderio di pace ma da un’ambizione personale guidata dal suo ego narcisistico, lo spinga ad usare la sua influenza per porre fine alla guerra alle condizioni del Presidente russo Putin. La sua retorica infatti è diventata sensibilmente più ostile all’Ucraina, con plateali menzogne su chi sia il dittatore e su chi abbia iniziato la guerra .
Non è una bel momento per lo stato diritto e per il diritto internazionale: l’impressione è che tutto ciò che abbiamo costruito nel corso del Novecento per cercare di garantire, appunto, la pace, il benessere, la giustizia e lo stato di diritto, anche a livello internazionale, sia progressivamente messo a repentaglio dal populismo e da politici di carature mediocri (non dimentichiamoci l’agghiacciante suggerimento di iniettare dosi di disinfettante per curare o prevenire il contagio dal virus del Covid, dispensato da Trump all’inizio della pandemia nel 2020: https://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/2020/04/24/coronavirus-in-usa-verso-50-mila-morti_8ce13d20-381e-47ed-b824-73ed66be8ca4.html), ma agguerriti ed aggressivi. La panoramica purtroppo è inquietante.
È paradossale che un aspirante al premio Nobel per la pace inizi una guerra, perché è proprio in questi termini che viene definita la politica commerciale protezionistica di Trump.
Costui sta utilizzando i dazi come uno strumento chiave della sua politica economica e commerciale, imponendo tasse doganali su una vasta gamma di prodotti importati, con l’obiettivo dichiarato di proteggere le industrie americane e ridurre il deficit commerciale, ma con conseguenze complesse e di non facile lettura. Le prime, immediate conseguenze sono una verosimile riduzione delle importazioni (i dazi aumentano il costo delle merci importate, rendendole meno competitive rispetto ai prodotti locali), un aumento dei prezzi per i consumatori americani e una riduzione della produzione globale. In questo modo i flussi commerciali internazionali possono risultare alterati, influenzando la crescita economica di paesi esportatori e importatori. I dazi, inoltre, alzando i costi dei fattori produttivi, hanno un effetto sull’inflazione sul livello dei prezzi in generale.
Ma probabilmente a Trump era sfuggita l’interconnessione dei settori di produzione a livello internazionale. Molte società hanno infatti già protestato, sottolineando che la loro catena di forniture è internazionale e che, di conseguenza, i dazi le colpiranno anche se il prodotto finito sarà assemblato in America.
Tra i settori che temono di più i dazi americani c’è quello dell’auto. Trump ha affermato di non temere che le aziende estere alzino i prezzi per compensare i nuovi dazi sulle importazioni, perché in questo modo, a suo dire, gli americani compreranno più auto fatte negli Usa. L’automotive è però uno dei settori più interconnessi a livello internazionale degli Stati Uniti. In particolare, ha un forte legame con Messico e Canada, tra i primi Paesi a essere colpiti dai dazi.
I dazi, quindi, più che sul prezzo di un singolo bene o di una singola categoria merceologica, hanno un effetto deprimente globale: sono “sabbia negli ingranaggi dell’economia”, per dirla con le parole di Carlo Alberto Carnevale Maffè, ed aumentano l’instabilità, l’incertezza, l’imprevedibilità e di conseguenza deprimono gli investimenti.
Naturalmente la guerra dei dazi scatena anche ritorsioni da parte dei paesi colpiti, con tensioni economiche e anche diplomatiche. È facile quindi aspettarsi che da queste misure nessuno trarrà beneficio, a iniziare proprio dal Paese governato dal guerrafondaio dei dazi.