
CONO DI LUCE Paesaggi di guerra, paesaggi di pace con Paolo Malaguti
14 Gennaio 2024
Un premierato “equilibrato”: alcune domande al prof. Stefano Ceccanti
26 Gennaio 2024Con questo editoriale mi rivolgo al lettore di Luminosi Giorni perché esce in occasione del restauro integrale del sito, con il quale in tutti questi anni siamo stati riconosciuti. Si mantiene una certa tradizione grafica, pur con forme e disposizioni diverse, più adatte ad una lettura veloce. Un ringraziamento prima di tutto va allo staff dell’agenzia NAP che ha curato questo lavoro e che in futuro non dovrebbe limitarsi alla sola manutenzione del sito, ma essere presente anche a livello redazionale e comunicativo. E, ovviamente il ringraziamento va, ancora una volta, anche ai nostri autori e collaboratori, che sono la base di questo nostro lavoro.
Vorrei cogliere allora questa occasione simbolica per ricordare e mettere bene in chiaro qual è la missione (oggi si dice così…) che ci siamo posti di adempiere fin dall’inizio della nostra storia. Non è la prima volta che lo si fa, ma, come si dice, repetita iuvant.
In questi anni si sono sprecate le ironie sul nostro nome (tra le più comuni: nome da ‘pompe funebri’), ma mi preme ri-sottolineare che, nel nome, il riferimento alla luce della ragione, quella che consente il cammino progressivo della modernità in tutti suoi ambiti, è stata una scelta assolutamente voluta, attraverso il suggerimento involontario dell’omonima ballata, scritta e interpretata da Massimo Bubola. Del resto ho già avuto ampiamente occasione di parlarne quando abbiamo celebrato i dieci anni.
Certamente ci sentiamo figli dell’età dei lumi e prima ancora di quella rivoluzione scientifica che li ha preceduti e ispirati (e la fiducia, per quanto non incondizionata, nella scienza, per noi è una priorità anche oggi). Siamo ben consci delle contraddizioni macroscopiche, a volte anche drammatiche, attraverso le quali quell’età si è affermata in seguito. Ma siamo altrettanto consci che l’attuale società europea, nella quale viviamo, da lì prende avvio. Ho già avuto occasione di scriverlo: è la ‘società aperta’, delineata in modo perfetto dal filosofo austriaco Karl Popper, democratica e inclusiva, che poggia le sue basi sullo Stato di Diritto, che tutte le carte costituzionali europee delineano con precisione. Attraverso la triade di libertà, uguaglianza (di fronte alla legge e delle opportunità) e fraternità ( leggi: solidarietà). E la sequenza dell’ordine, con cui i tre termini sono posti, non è casuale.
C’è una formula sintetica più esplicativa che riassume questa società aperta, e la suddetta triade, ed è: liberaldemocrazia. Che comprende in sé il concetto di socialdemocrazia molto più di quanto tale concetto possa comprendere il primo. E che ha nella libertà (non illimitata, ma auto regolata quando nuoce al prossimo) l’acquisizione principale di tutta la modernità. Perciò l’idea liberal(social)democratica non può essere recintata in una ideologia di parte, e di conseguenza in un partito o in un movimento politico, per una semplice ragione: è la società di tutti, in cui tutti viviamo e di cui di fatto tutti beneficiamo, e in cui implicitamente ci riconosciamo anche quando la si nega, garantita da una Carta scritta, accettata da tutte le parti politiche.
È una società interprete di quei diritti universali dichiarati più volte negli ultimi ottant’anni. Non è di parte, è di tutti. Questa società europea che noi sposiamo ha i suoi detrattori interni, sia chiaro, quinte colonne, più o meno consapevoli e in mezzo a noi, di quei modelli societari bocciati irrimediabilmente dalla storia o di altri della stessa fatta in giro ancora per il mondo. Ma è una società che immodestamente, e per tutte queste ragioni, noi riteniamo che sia un modello da estendere universalmente, come universali sono i diritti che promuove. In questa stessa pagina Lorenzo Colovini delinea perfettamente il concetto. Il multiculturalismo è un valore, ma dentro questo tipo di società; e altrettanto immodestamente riteniamo che tale modello sia foriero di reale sviluppo sociale ed economico in quelle estese parti del pianeta che sono in grande ritardo, anche perché, seppure non solo per questo, in ritardo nei loro sistemi politico istituzionali.
Perciò quando un nuovo autore si accinge a collaborare con Luminosi Giorni, la garanzia di scrivere in una testata libera la dà questo profilo ideale che noi scegliamo: non siamo schierati per ‘una parte’, ma cerchiamo di interpretare ‘il tutto’ di una ‘società aperta’. Ben consci che questa società aperta è piena zeppa di contraddizioni e inadeguamenti ai suoi stessi principi, anche in quel campo sociale che pure declama attraverso la fraternité. Ci conforta però sapere che possiede un antidoto o, meglio, una chance per affrontare e sanare le proprie evidenti contraddizioni, chance che molte culture politiche e forme istituzionali nel resto del pianeta non hanno: è una società sempre e continuamente riformabile, perché ‘aperta’, all’interno del quadro costituzionale che si è data e che la protegge.
Sulla carta i partiti politici che si riconoscono nel quadro costituzionale sono praticamente tutti. Nella sostanza delle loro scelte alcuni partiti, o più frequentemente loro pezzi, ipocritamente rispetto a tale riconoscimento, remano contro, contraddicendola, e sono le ‘quinte colonne’ di cui dicevo. Ecco se proprio una parte dobbiamo scegliere, ci schieriamo con chi sta dentro, non solo a parole, ma sostanzialmente e coerentemente, al quadro costituzionale. Quando prenderemo ‘parte’, e dovremo inevitabilmente farlo, dal comune al pianeta, lo faremo con questo criterio dirimente, il difendere l’integrità di un modello sociale e politico culturale. Per ciò il prender parte sarà solo apparente.
Tale quadro si manifesta in alcune ben precise scelte ideali, metodologiche e di merito, che sono le stesse nostre.
Sui diritti si è detto. Civili, individuali, collettivi e quindi anche sociali.
Ancora: abbiamo contezza che gli interessi generali si perseguono primariamente con l’azione pubblica, direttamente, ma anche indirettamente attraverso l’azione e l’impresa privata, che assume un ruolo non secondario, se a ciò, e solo a ciò, finalizzata.
Viene poi la laicità come valore culturale che, secondo la lezione acquisita dalla rivoluzione scientifica in poi, va oltre ( e, se necessario, contro) tutti i sistemi ideologici, qualunque essi siano, religiosi e non, quando entrano in contraddizione con i valori e gli assetti della ‘società aperta’ . Perché ogni scelta andrebbe operata con il solo ed unico bagaglio valoriale presente nella carta costituzionale e non con pregiudizi ideologici. Ciò vale per le grandi scelte e per quelle apparentemente più piccole, cercando sempre compatibilità tra principi apparentemente diversi.
Anche gli interventi sull’ambiente dovrebbero secondo noi essere condotti con questo metodo laico/pragmatico e graduati nel giudizio a seconda del loro scopo e delle loro conseguenze oggettive. Ben sapendo che non c’è nulla di immutabile in natura, se no tanto valeva rimanere appesi eternamente al ramo della pianta da cui i nostri antenati sono scesi coraggiosamente tra i tre e i quattro milioni di anni fa. Il senso di responsabilità di ogni azione sull’ambiente va sicuramente compiuto alla luce di ciò che sta accadendo per il clima, ma nello stesso tempo messo nel piatto della bilancia con il senso di responsabilità che valuta i vantaggi che ogni azione sull’ambiente produce per gli interessi collettivi; quelli prioritari, basici, cultura compresa, dove invece quelli ludici e\o individuali stanno in coda all’ultimo posto.
Inclusione significa anche contrastare in tutti i modo gli oppositori palesi della società aperta, lasciandoli tuttavia liberi di esprimere qualsiasi opinione di opposizione, se non viola la legge e se non usa violenza, né la istiga; ciò che a parti rovesciate loro non farebbero mai. È un paradosso che vogliamo e dobbiamo accettare per non contraddirci. È qualcosa di più della semplice tolleranza. Ciò vale anche per i loro simboli. Personalmente, e qui non voglio coinvolgere il ‘noi’ di tutta la testata, ho molti dubbi sull’applicazione della laicità in Francia, che vieta in pubblico o a scuola alcuni simboli evidenti dell’Islam, come, per esempio, il velo femminile, e non solo, e per quanto tali simboli siano espressione evidente di negazione di diritti. Interverrei semmai con forza quando effettivamente dal simbolo si passa al fatto di un sopruso reale del diritto, e ciò accade più di qualche volta. È d’attualità anche la questione mai sopita dei richiami al fascismo e ai suoi simboli. Stessa cosa. Se tali richiami restano solo verbali e gestuali e non passano alle vie di fatto o inducono alle vie di fatto, devono potersi esprimere, per quanto siano anche per me a dir poco ripugnanti. Anche perché qualsiasi repressione del solo esprimere un pensiero e un’opinione o dell’effettuare un gesto otterrebbe esattamente l’effetto contrario, il creare dei martiri che, allora si, avrebbero un potenziale di proselitismo assai maggiore di quello che un lasciar dire e mostrare può provocare. In definitiva abbiamo una Costituzione e una legge che ci garantisce quando certa progettualità volesse divenire azione concreta.
Potrei continuare ricordando come per noi resta prioritario l’obiettivo di una reale sovranità sovranazionale Europea, da far perseguire alle generazioni future, ma con scelte già nel presente e conseguenti a tale obiettivo (penso allo sforzo politico di far definitivamente cadere il diritto di veto con l’unanimità nelle decisioni). Ciò vale anche per la politica estera, cioè nei rapporti extraeuropei. Le applicazioni di tali scelte nel contesto delle guerre in corso vengono da sè e non necessitano di ulteriori spiegazioni.
Concluderei infine con un altro valore costituzionale, vale a dire il merito, la cui promozione dovrebbe guidare sempre ogni scelta politica, dalla scuola elementare fino ai posti di responsabilità sociale e civile. Per noi assolvere il de-merito con un gioco dei contrari, accettarlo, e alla fine favorirlo, è l’atto più iniquo che ci sia. Perché, se viene attuato, di fatto ristabilisce un criterio, un tempo immutabile, che una lotta politica e valoriale ha cercato di abbattere nel corso di quattro secoli: il privilegio. Chi è promosso, non solo a scuola, ma soprattutto nella vita, senza meritarselo, ma per altre ragioni, e non solo di censo, è un privilegiato ingiustamente. Con un’avvertenza tuttavia che mi ispira il politologo e filosofo statunitense John Rawls nella sua ” Una teoria della giustizia” : “Nessuno di noi – egli scrive – merita il posto che ha nelle distribuzioni delle doti naturali. Allo stesso modo in cui non meritiamo il nostro punto di partenza nella società“. In definitiva alla nascita (il punto di partenza) tutti noi abbiamo (e, per una ‘teoria della giustizia’, non dovremmo avere) differenze di status, non acquisite con il merito, perché dobbiamo ancora intraprendere il cammino in cui farlo valere. Alla nascita non siamo tutti livellati ai nastri di partenza, come dovremmo, e acquisiamo quindi un merito di partenza ingiusto che va sanato, perché c’è chi nasce con minori chance e parte ingiustamente in ritardo, senza aver de-meritato proprio nulla, visto che il suo percorso inizia in quel momento. Per riportare tutti alla pari ai nastri di partenza, per far partire il cammino equo in cui alla fine del percorso chi merita emerge, deve intervenire la Res Publica con un’azione che sani quella differenza iniziale. Come? Per noi, come per la Carta Costituzionale, non c’è che si possa sanare se non attraverso la solidarietà sociale (leggi: contribuzione economica), graduata in modo inversamente proporzionale ai ritardi di partenza. È una prassi che andrebbe attuata anche alla scala planetaria cercando di riportare ad una dignità di partenza coloro che senza colpa o demerito nascono in situazioni economiche fortemente disagiate. È evidente a tutti che chi viene al mondo in Burkina Faso incolpevolmente risulta sfavorito (eufemismo) rispetto a chi nasce In Europa o negli Stati Uniti.
Non è tutto ma è già molto quello che ho scritto, sufficiente per un rinnovo del riconoscimento di ciò che siamo e di ciò che vogliamo.
PS Nel parlare di ‘luce’ e dei suoi richiami in questo editoriale c’è effettivamente un omissis, ed è quello delle ‘testimonianza della luce’ presente nella fede cristiana e portata dal suo fondatore. Eppure c’è, sottile, un fil rouge che lega la luce di quella fede, carsica, perché soffocata dal dogma, ai ‘lumi’ della modernità. Tutto si tiene.