Attente al lupo!
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17 Settembre 2023Come di consueto, propongo nel seguito una rassegna dei (quest’anno molti) titoli che ho avuto il piacere di vedere alla Mostra Internazionale del Cinema. Molti buoni film, pochi “picchi” e più di qualche fetecchia (ma il festival è anche questo). E pure la scelta dei premi molto, molto discutibile. Ma anche questa non è una novità. Per la prima volta mi arrischio anche a dare voti (da 1 a 5 palline). Buona visione a quanti saranno indotti ad andarne a vedere qualcuno.
Comandante di Edoardo De Angelis O O O O
Riproposizione del tema “italiani brava gente”, senza retorica (e il rischio, dato il soggetto, era alto), è un racconto misurato e solido, con momenti di grande umanità. Il film è stato stroncato da una certa critica di sinistra in quanto colpevole di mettere positivamente in luce il comportamento del comandante del sottomarino che, in quanto ufficiale di Marina, non poteva non essere fascista. Insomma, il film sarebbe la prova che non abbiamo fatto i conti col fascismo. Pure farneticazioni. Unico difetto: lo strano accento che propone Favino, una specie di accento “padano” non ben identificato (tranne un breve scambio in cui parla in puro veneziano col suo luogotenente), già proposto in altri film e che evidentemente gli piace molto. Non era il caso.
L’ordine del tempo di Liliana Cavani O O
Tratto da un racconto del fisico Carlo Rovelli, il film è statico e noioso, con un pesante impianto teatrale, disserta del senso e della percezione del tempo cogliendo a pretesto una possibile imminente apocalisse. Un film pedante che si trascina inconcludente e finisce peggio, con un finale stile “Perfetti sconosciuti” abbastanza incongruo. Un prestigioso cast davvero sprecato.
Ferrari di Michael Mann O O O
Buon film, narra l’anno 1957 in cui si è verificato il terribile incidente nella corsa su strada Mille Miglia che provocò 9 vittime tra gli spettatori. Ottimo bilanciamento tra le complicate vicende personali del Drake (molto convincenti) e le sue imprese sportive, con scene realistiche e avvincenti. Si apprezza anche per la resa dell’Italia anni ’50, davvero accurata.
Dogman di Luc Besson O O O O O
Film originalissimo, tenero e drammatico insieme, con una monumentale prova d’attore del protagonista Caleb Landry Jones. Imperdibile per chi ama i cani. L’impianto fantastico fa perdonare anche le evidenti licenze dalla verosimiglianza. Crea da subito un’immediata immedesimazione nel protagonista (e nei suoi cani) e lo spettatore tifa per lui anche quando commette crimini. Memorabile la scena della resa dei conti con gli sgherri del ras di quartiere. Finale commovente e lirico. Per l’originalità meritava forse più di tutti il Leone d’Oro ma la vera ingiustizia è che a Caleb Landry Jones non sia stata assegnata la Coppa Volpi, che gli sarebbe spettata alla grande.
Poor things (Povere creature!) di Yorgos Lanthimos O O
Film strano e straniante, protagonista una specie di dott. Frankenstein (Willem Dafoe) che ridà vita ad una suicida, incinta (Emma Stone), impiantandole il cervello del suo feto. Ne esce una creatura priva delle più elementari convenzioni sociali, in particolare le manca ogni pudore in tema di sesso per il quale dimostra una proclività insaziabile. Molto ricercato nelle immagini, costante uso del grandangolo, alternanza sapiente di b/n e colore, esterni di città creati in studio onirici e immaginifici. Sarà che non ho più l’età ma francamente mi sfugge perché la maturazione della protagonista si concretizzi solo tramite il sesso. Ma è piaciuto sia ai critici sia, evidentemente, alla Giuria che l’ha insignito del riconoscimento massimo.
Aspettando l’alba di Saverio Costanzo O O
Storia piuttosto convenzionale, senza particolari squilli e originalità. Massacrato dalla critica, un po’ ingenerosamente. Perché è un film onesto, ben girato, che ricrea molto bene la Roma dei tempi Hollywood sul Tevere.
Maestro di Bradley Cooper O O O
Biopic classico, sulla vita di Leonard Bernstein, poliedrico direttore d’orchestra e compositore. Ne segue gli sviluppi di carriera e le passioni artistiche e quelle personali, assai particolari perché diviso tra l’amore profondo per la moglie, che muore prematuramente, e una indomabile passione per il sesso maschile. Tema trattato con franchezza e misura insieme, con ampio spazio al punto di vista della moglie (Carey Mulligan). Straordinaria somiglianza del protagonista e regista con il Nostro.
Adagio di Sergio Sollima O O O
Film di genere, poco da festival probabilmente, ma onesto e avvincente. Una crime story dall’aria crepuscolare, ambientata in una Roma distopica, affranta dal caldo soffocante e da continui black out. Prova attoriale gagliarda di tutti e tre i vecchi “criminali” ormai ritiratisi ma che si rimettono in gioco per proteggere un ragazzo da poliziotti corrotti.
The killer di David Fincher O O
Lui è una specie di James Bond molto tecnologico, fa il killer di professione e per la prima volta manca il colpo. Ne segue una rutilante serie di fughe, vendette, esecuzioni a sangue freddo, voli da un capo all’altro del pianeta. Tutto molto avvincente e ben girato a patto che non si ceda alla tentazione di interrogarsi sulla logica della trama. Che è piena di incongruenze. Ma piacerà alle fans di Fassbender.
La bête di Bertrand Bonello O O
Film che ha incantato i critici (ma non la Giuria), molto ambizioso e ardito, a partire proprio dall’ardire di infliggere allo spettatore 146 minuti in cui salta su tre piani temporali per rivivere le vicende di due amanti sfortunati. C’è di mezzo l’intelligenza artificiale e un futuro prossimo (il 2044) in cui si immagina che ci si possa ripulire il DNA per togliersi di mezzo le emozioni negative. Molto cerebrale, forse troppo (almeno per la limitata capacità di chi scrive).
Priscilla di Sophia Coppola O O
Altro biopic, sulla Priscilla di Elvis. Piatto, lento e prevedibile. Si fa apprezzare per la prima parte, dove la giovanissima Priscilla viene vista e subito amata da Elvis, già divo riconosciuto mentre svolge il servizio militare. Poi si trascina stanco e col ritmo di un bradipo, con poco o punto approfondimento dei personaggi. Peraltro senza neppure una nota delle musiche di Presley (per motivi di diritti non concessi). Inspiegabile l’attribuzione della Coppa Volpi alla insignificante protagonista, Cailee Spaeny.
Aku was sonzai shinai (Evil does not exist) di Ryusuke Amaguchi O O O
Film delicato e interessante che ripropone l’ennesimo contrasto tra una realtà bucolica e isolata che si scontra con la civiltà e il business (in questo caso l’insediarsi di un glamping, un camping con servizi a 5 stelle) che certo può portare denari ma anche minacce al perfetto equilibrio dei (pochi) abitanti. Qualche lunghezza di troppo (va bene che si doveva rendere l’atmosfera bucolica ma..), merita soprattutto per la messa in scena dell’incontro pubblico di presentazione del progetto ai diffidenti abitanti. Composto e focalizzato sui contenuti concreti, l’antitesi di quanto avviene dalle nostre parti. Vince il Gran Premio della Giuria (forse un po’ generoso). Come finisce il film costituisce il Primo Grande Quesito della Mostra.
Enea di Pietro Castellitto O
Irritante e supponente come la gioventù dell’alta borghesia romana che mette in scena. Davvero inconcludente e pretenzioso.
Zielona gramica (Green Border) di Agnieszka Holland O O O O
Poderoso e impegnato, porta lo spettatore nei boschi tra Polonia e Bielorussia tra i profughi e migranti dal Medio Oriente usati come “arma non convenzionale” dalla Bielorussia. Episodi di cinismo e crudeltà ma anche slanci generosi e disinteressati. Molto “politico”, chiaro atto d’accusa al governo polacco e alla deliberata disinformazione che aizza la popolazione contro quei poveracci che fuggono dalla guerra o da situazioni di gravi privazioni di diritti, salvo poi dimostrarsi generosissimo nell’accoglienza ai profughi ucraini. Raggio di sole il finale quando il poliziotto, stremato dalle brutture cui è stato costretto, finge di non vedere la famiglia nascosta nel van. Tipico film da Leone d’Oro mentre gli è stato attribuito “solo” il Premio Speciale della Giuria. Premiato o meno, comunque un film da vedere.
Io capitano di Matteo Garrone O O O O
Altro film sui migranti ma molto diverso dall’opera di Holland. Perché Garrone parte da un assunto forte: i due ragazzini che scelgono di venire in Italia a casa loro hanno una vita e un ambiente familiare sereno e, seppure povero, non certo al limite della sopravvivenza. Vengono in Italia perché convinti che faranno fortuna come cantanti, nonostante la netta contrarietà della madre del protagonista. L’Italia come Paese dei balocchi. L’odissea dei due, novelli Pinocchio e Lucignolo, diventa la presa di contatto con la cruda realtà. Realtà che viene rappresentata molto efficacemente, attraverso la traversata del Sahara, con un lungo tratto a piedi, le forche caudine dei sordidi trafficanti libici (che pare di capire non ci vorrebbe molto a sgominare, solo si volesse). Un business su cui campano criminali e poveri diavoli, una tragedia che, stante la sostanziale vacuità della motivazione di partenza, appare ancora più straziante perché gratuita. A parte alcune situazioni risolte in modo non particolarmente credibile, il film ha il pregio di costituire una specie di reportage attraverso tutto la dolorosa odissea dei migranti, con convincente realismo pur evitando con cura il (facile) registro cruento ed efferato. Premio alla miglior regia e premio Mastroianni al giovane protagonista.
Origin di Ava DuVernay O
Francamente sconcertante trovare in concorso un film così. Incentrato su una vincitrice del Pulitzer che ha scritto un libro in cui si sostiene che il criterio della discriminazione nelle varie società non sia la razza (come in USA si dà per scontato) ma una sovrastruttura artificiale che lei chiama “casta” e infatti si dilunga molto con i poveri “intoccabili” in India. Teoria interessante (anche se non del tutto convincente) ma esposta in una specie di docufiction in cui la parte fiction resta compressa in una afasia desolante (la protagonista, vera campionessa mondiale della sfiga, vede morire a stretto giro il marito, la madre e la cugina amata come una sorella). La parte documentariale, pur dicendo cose ovviamente sacrosante e scontate, è insopportabilmente didascalica e pedante, ripetitiva, con un predicozzo finale lunghissimo e inutile. Un docufilm da mostrare ottimamente a scuola ma non alla Mostra del Cinema.
Lubo di Giorgio Diritti O O O
Un soggetto molto forte, paesaggi splendidi (molto bella la fotografia) e un romanzone con tutti gli elementi per inchiodare alla sedia lo spettatore. Peccato che la regia sia estremamente moscia, un ritmo neppure da serie TV, un attore con una sola espressione sul viso per le tre ore di film (sicuramente una scelta registica). Insomma, un’occasione persa per fare un filmone. Ma vale la pena di vederlo, se non altro per fare luce su una tragedia umanitaria di cui si è probabilmente ignari. E farsi venire la voglia di visitare Bellinzona e il Lago Maggiore.
Hors-saison di Stéphane Brizé O O O
Film romantico e delicato, con tutti gli elementi del caso, a partire da una brumosa e fascinosa costa della Francia del nord. Francese come solo i francesi fanno i film d’amore. Siamo dalle parti di Lelouch, per capirsi. Non particolarmente originale ma ben recitato, brava la Rohrwacher (presente alla Mostra in ben tre film), che recita convincentemente in francese.
Memory di Michel Franco O O O O
Love story improbabile, tra un uomo e una donna con enormi problemi personali, che nasce imprevedibilmente e contro tutto. Un incontro tra anime provate tra cui sboccia un sentimento tenero e solido insieme. Il protagonista maschile (Peter Sarsgaard) si porta a casa la Coppa Volpi che personalmente avrei dato alla protagonista Jessica Chastain, che si mostra disadorna, senza un filo di trucco, coi capelli legati, non certo più una ragazzina. Ma di un fascino radioso e dolcissimo. Irresistibile.
La sociedad de la nieve di Juan Antonio Bayona O O O O O
Racconta la celebre vicenda, negli anni ’70, dei sopravvissuti del disastro aereo sulle Ande che hanno incredibilmente superato mesi in mezzo a tempeste di neve, sottoposti a temperature rigidissime, accartocciati sulla carcassa dell’aereo e cibandosi dei corpi dei compagni morti nello schianto. Un ritmo narrativo perfetto, un racconto asciutto e preciso, empatico con i protagonisti della disavventura senza scadere nel melodrammatico. Davvero un piccolo capolavoro. Epica la discesa a valle di due ardimentosi sul versante ovest, fino a trovare la civiltà e salvare se stessi e i compagni. Panorami andini asperrimi e bellissimi.
Ai shi yi ba qiang (Love is a gun) di Lee Hong-Chi O
Taiwanese, Leone per la migliore opera prima. Da cui il Secondo Grande Quesito della Mostra (il primo, ricordo, era “ma come è finito il film giapponese?”): se questa era la migliore opera prima, come erano le altre??