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26 Dicembre 2022Da MARCO ZANETTI RICEVIAMO E VOLENTIERI PUBBLICHIAMO Il termine primarie, entrato in uso nell’800, trae origine dalle primary elections americane (primaries), organizzate per la prima vota dal Partito Democratico nel 1847 (1). Quando si parla di primarie, di partito o di coalizione, per scegliere candidati ma anche – sebbene il nome sia inappropriato – per eleggere direttamente dirigenti di partito, si dà per scontato che esse si debbano fare col metodo in uso della preferenza secca, cioè di una maggioranza non qualificata, trascurando però gli aspetti negativi fin qui ampiamente riscontrati nel sistema primarie:
a) le primarie reali si fanno in buona misura nelle solite stanze con la formazione delle candidature ed esprimono cioè la forza delle oligarchie di partito;
b) nel caso di primarie di coalizione, spesso ci scappa il candidato di partito, di per sé inopportuno per una coalizione basata su forze politiche diseguali; quando poi i candidati di partito sono più d’uno, può succedere, paradossalmente, che il più grande partito di una coalizione soccomba a candidati espressi da forze minori;
c) i candidati tendono comunque ad essere pochi e fortemente alternativi; ciò si traduce in una limitata possibilità di scelta da parte dell’elettore;
d) il clima di competitività che si crea, giusto poco prima delle elezioni vere, tende a dividere l’elettorato d’area, piuttosto che a dare il senso della ricerca del candidato migliore;
e) può verificarsi uno scarso interesse, a queste condizioni, di buona parte dell’elettorato oppure, al contrario, un patologico coinvolgimento di cordate ed interessi non esattamente politici;
f) chi organizza le primarie delega generalmente la comunicazione con l’elettorato ai candidati, piuttosto che impegnarsi per garantire un equo confronto (a prescindere dalle forze e dalle risorse di ciascun concorrente).
Gli esiti incresciosi di diverse primarie gestite dal Partito Democratico hanno anzi portato a mettere in dubbio la loro opportunità: del resto a che servirebbero i partiti (quelli dell’art. 49 della Costituzione) se non a selezionare il personale politico da sottoporre al voto dei cittadini? Inoltre, in questa fase di debolezza delle tradizionali forme-partito, anche le primarie per scegliere qualsivoglia carica o candidatura comportano dei rischi. La liquidità di alcune attuali formazioni politiche tende a dar spazio a forme di leaderismo ad ogni livello e, per contro, proprio la debolezza attuale dei partiti, delle loro strutture di base, lascia più potere alla dirigenza centrale e all’organizzazione del partito che tendono quindi a riservare a sé stesse le scelte che spetterebbero piuttosto agli iscritti tutti, come ben aveva visto, già nei primi anni del 900, Roberto Michels diagnosticando la ferrea legge dell’oligarchia (2), secondo la quale se è ben vero che la democrazia richiede partiti, questi non possono che tradursi in organizzazione e dunque in oligarchia e che questa tende inevitabilmente a comprimere gli spazi reali della democrazia (3). Inoltre possono essere pericolose certe forme di consultazione via web, poco controllate e controllabili, e che comunque riducono l’umanità della politica ad un solitario digitare sul computer evitando la sia pur minima socialità del deposito di un voto nell’urna in un seggio elettorale.
Ma si può spostare la domanda sulle primarie dal se al come farle, cioè con quale modalità tener conto delle volontà di chi partecipa all’elezione-selezione. L’etimo della parola «eleggere» è il verbo latino eligere che significa «scegliere»; non si dovrebbe dunque trattare solo di contare la numerosità dei voti [eguali] di ciascuno! Giovanni Sartori (4) ci ha ricordato che il diritto della maggioranza di prevalere sulla minoranza, o sulle minoranze è sostanzialmente un fatto moderno introdotto da John Locke (5) nel suo disegno costituzionale (6). I greci si affidavano anche al sorteggio – e Nadia Urbinati ha evidenziato come recentemente gli islandesi sono ricorsi al sorteggio per costituire la maggioranza dei membri dell’assemblea per la riforma costituzionale (7) – e comunque nell’antichità contava l’unanimità o l’acclamazione, modalità che esprimevano in sostanza l’autorità o la forza dell’eletto. Solo più tardi nelle comunità ristrette del medioevo ci si preoccupò di come scegliere bene i capi, priori o regnanti che fossero; poiché il loro potere era assoluto ci si preoccupava che la major pars coincidesse con la melior pars. Il moderno principio di maggioranza rileva Sartori «è solo una tecnica, un metodo, uno strumento, al quale ci sottomettiamo perché è migliore di altri […] il criterio maggioritario è il male minore», dopotutto si basa solo sul numero essendo eguale il voto di ciascuno. Era stato un illuminista, presidente degli Stati Uniti, Thomas Jefferson (8), a precisare nel 1801 che anche se la volontà della maggioranza deve in ogni caso prevalere «quella volontà, per essere giusta [to be rightful] deve essere ragionevole». Era il problema del valore, della qualità, sottovalutato da Locke che rientrava dalla finestra. Del resto, parecchi studiosi nel corso dei secoli hanno messo in discussione l’effettiva democraticità delle scelte a maggioranza (9). Ricordarli brevemente ci dovrebbe aiutare a dissacrare la troppo scontata regola della decisione a maggioranza semplice.
Già Platone (10), per le diverse cariche pubbliche della sua organizzazione statuale ideale, aveva immaginato delle procedure elettorali a più stadi, con esclusioni progressive per restringere la rosa degli eleggibili. Plinio il Giovane (11) aveva in seguito affrontato il problema della scelta tra più opzioni, nel caso in particolare in cui non si era formata una maggioranza assoluta e aveva dovuto prender atto di quanto contasse la gestione politica della procedura elettorale nello spostare il voto magari su una seconda scelta, non la più gradita ma quella che avrebbe potuto vincere.
Doveva passare oltre un millennio prima che un monaco catalano, Raimundo Lulio (12) (noto come Raymond Llully o Llull), scrivesse nel 1283 una sorta di romanzo devozionale con un capitolo dedicato a come un ristretto numero di monache dovesse eleggere una badessa: esclude a priori il metodo della maggioranza semplice e la scelta – illuminata dalla Provvidenza – è rimessa ad un numero ristretto di elettrici (le sette che in una prima votazione ricevono più voti dalle consorelle, ed altre due che sono da queste indicate) ciascuna delle quali si confronta a coppie con tutte le altre concorrenti con l’eliminazione della meno gradita di ogni serie di confronti (date n candidate, il numero di coppie è uguale a n (n – 1):2). Nel 1299 il monaco ritorna sull’argomento con il saggio De arte electionis, proponendo una procedura che riduce il numero dei confronti necessari e che però fornisce solo un vincitore e non una classifica di merito, come il precedente, e il cui risultato non è indifferente all’ordine dei confronti tra i concorrenti.
Parecchi anni dopo, in pieno Rinascimento, uno studente tedesco, Nikolaus Krebs (13), s’imbatte a Parigi, nei lavori di Llull e se ne fà copia (14) Laureatosi in legge a Padova ha una grande carriera come erudito e poi come cardinale tanto da indurlo a trasformare il suo cognome (15) in Krebs von Kues (la sua città natale) e quindi, in latino, in Cusanus. Egli delinea il metodo che potrebbero seguire i principi elettori tedeschi del Sacro Romano Impero (16) per eleggere l’imperatore. Se vi sono, ad esempio, 10 candidati, ogni elettore riceve 10 foglietti, ciascuno con il nome di uno di essi. Deve ora attribuire un numero di merito diverso ad ogni candidato: 10 al preferito, 9 alla seconda scelta, 8 alla terza e così via fino al meno gradito che avrà 1. Tutti i fogli di tutti gli elettori sono conferiti in un’urna. Chiuse queste votazioni, alle quali è garantita la segretezza, si fa lo spoglio sommando i voti presi da ciascun candidato e viene così eletto colui che consegue il punteggio più alto. Differentemente dal metodo di Llull, pensato per una piccola comunità che era e doveva restare coesa, quello di Cusano è pensato per elettori diffidenti. Egli trascurava però due possibili complicazioni: il fatto che l’elettore potesse trovarsi a giudicare due candidati a suo giudizio a pari merito (il dover necessariamente metterli in posizioni diverse di graduatoria introduceva un elemento di casualità) e la semplificazione/forzatura introdotta distanziando la valutazione di ogni candidato di un punto (in alternativa al candidato preferito si sarebbero potuti aggiungere altri punti e alle ultime posizioni di graduatoria personale si sarebbe potuto attribuire anche nessun punto). Del resto, l’Eurofestival utilizza oggi effettivamente una variante migliorata del metodo Cusano: le canzoni peggiori ricevono zero punti e la canzone più piaciuta riceve un punto in più rispetto a quello che le spetterebbe nell’ordine delle canzoni in competizione. Malgrado questo recente e sorprendente seguito, la proposta di Cusano rimase trascurata per secoli.
Nell’epoca dei lumi entra in gioco un eccentrico personaggio: Jean-Charles de Borda (17), nobile francese, con una solida preparazione in matematica e scienze maturata in un collegio di gesuiti; egli entra nell’esercito, distinguendosi per studi di matematica e artiglieria, e passa poi in marina distinguendosi anche qui per studi su tecnologie avanzate (inventa un orologio di precisione per l’uso a bordo). Con la Rivoluzione passa ad interessarsi anche di tecniche elettorali e pubblica nel 1784 il saggio Mémoire sur les élections au scrutin (18) che aveva scritto in realtà tre anni prima. Borda mette radicalmente in discussione l’assioma fondamentale che nelle votazioni a scrutinio segreto la maggioranza dei voti esprima effettivamente la volontà della platea degli elettori (assioma su cui si basa tuttora il Pd – inconsapevolmente: forse che sì o forse che no). La votazione a maggioranza andava bene solo se i candidati erano solo due, altrimenti erano possibili esiti paradossali come si poteva ben dimostrare con un semplice esempio che considera le scelte di 21 elettori su tre candidati (A, B, C) indicando la successione delle preferenze con il segno >

Con la preferenza semplice vince evidentemente il candidato A, con 8 voti su 21. Tuttavia nei confronti a due (alla Llull) vincerebbe C in 21 sfide (14 con B e 7 con A) mentre B vincerebbe solo in 13 sfide ed A solo in 8: un esito dunque davvero paradossale. De Borda era, come si è visto, una persona pratica e di larghe esperienze, maturate sul campo di battaglia, al comando di vascelli e in missioni scientifiche, e dunque propose nel saggio succitato un suo rimedio: bastava che ogni elettore potesse dare un voto graduato a ciascun candidato, da 1 al meno gradito, 2 al penultimo nella sua scala di gradimento e così via, attribuendo cioè un valore di merito a ciascuna posizione di graduatoria differenziato di una unità. Il maggior punteggio risultante dalla somma dei voti degli elettori avrebbe indicato il vincitore. Nell’esempio precedente i punteggi sarebbero risultati come segue:

Sommando i punteggi ricevuti da ciascun concorrente, sarebbe risultato vincitore C con 48 punti (16 + 14 + 18) contro B (8 + 21 + 12 = 41 punti) ed A (24 + 7 + 6 = 37 punti). Borda si rendeva conto che l’attribuire un differenziale di valore paritetico (una unità) tra le posizioni prossime di graduatoria poteva non rispecchiare esattamente la valutazione reale dell’elettore (cioè l’intensità della preferenza che poteva anche essere analoga nei confronti di alcuni candidati), ma riteneva, da persona pratica qual era, sufficientemente ragionevole la sua proposta. Del resto sarebbe stato pure da discutere della correttezza di attribuire lo stesso peso al giudizio di tutti gli elettori (vecchia questione: uno vale davvero uno?). In realtà, Borda con il suo metodo di votazione per ordine di merito, aveva riproposto senza neppure conoscerlo quello del cardinale Cusano che sarebbe stato riscoperto solo alla fine del XX secolo, ma lo proponeva in un contesto ben più dinamico e con basi elettorali più ampie. Borda si preoccupò anche di verificare la corrispondenza dei risultati con il suo metodo a quello con l’elezione a maggioranza semplice per aver garantito lo stesso risultato: la questione si risolve con una semplice equazione. Se n è il numero dei candidati, il vincitore a maggioranza semplice deve ottenere 1-1/n voti per avere la garanzia di vittoria anche applicando il metodo Borda, cioè con 5 concorrenti dovrebbe ottenere i 4/5 dei voti; ciò può sembrare porre l’asticella piuttosto alta ma, in effetti, questa percentuale rappresenta solo la necessità in casi estremi di polarizzazione dei voti. Il metodo fu oggetto di discussioni approfondite e se ne evidenziarono le criticità: poteva anche essere eletto un candidato non favorito da alcuno come prima scelta e qualche elettore poteva esercitare il cosiddetto voto strategico, già notato da Plinio il Giovane, a scapito dell’avversario più temibile.
Entra quindi in campo un altro nobile francese, di poco più giovane, Marie-Jean-Antoine-Nicolas de Caritat, marchese, de Condorcet (19), anch’egli formatosi alla scuola dei gesuiti, è un ottimo matematico ed esponente prestigioso dell’illuminismo parigino. Pur essendo a favore delle cause liberali, si impegna a dimostrare come fosse erroneo il principio un uomo un voto applicato alle decisioni a maggioranza per eleggere sia dei rappresentanti che dei giudici. Nel 1785 pubblica su questo tema il trattato Essai sur l’application de l’analyse à la probabilité des décisions rendues à la pluralité des voix. Era una posizione simile all’analisi di Borda, cui aggiungeva considerazioni storiche e sociologiche: a favore della regola della maggioranza vi era una buona, pragmatica, ragione: affidarsi alla maggioranza significava appoggiarsi alla sua forza il che comportava stabilità e pace. Tuttavia era importante anche la correttezza delle decisioni prese a maggioranza: Condorcet ricordava come per questo in Inghilterra si era richiesta l’unanimità nelle corti di giustizia. Egli poi rimetteva tutto in discussione definendo l’impossibilità di assicurare un risultato elettorale corretto, rispondente cioè alle reali preferenze degli elettori, quando le alternative al voto sono più di due: osservazione passata alla storia come Paradosso di Condorcet. Si andava cioè confermando la linea definita anni prima da Rousseau sulla «sovranità che non può essere rappresentata per la stessa ragione che non può essere alienata» (20). Il paradosso può essere semplicemente schematizzato riportando l’ordine di preferenze di tre votanti (x, y, z) su tre alternative (A, B, C):

In queste votazioni, in confronti a due, A vincerebbe su B (2 maggiori preferenze su 3) e B su C (2 maggiori preferenze), ma paradossalmente C vincerebbe su A (ancora, 2 maggiori preferenze su 3). Ciò significa che le preferenze collettive possono essere cicliche e che – in linguaggio matematico – i voti a maggioranza sono intransitivi. La pratica oggi tuttora comune di pilotare, secondo le convenienze di chi esercita questo potere, l’ordine delle decisioni da prendere in una organizzazione è dunque semplicemente una [furba] applicazione del Paradosso di Contorcet, cioè l’ordine dei confronti di coppia vale più delle preferenze reali degli elettori! La questione preoccupava assai il cittadino Condorcet (il titolo di marchese non era più spendibile!) tanto da riprenderla pochi anni dopo in un articolo Sur les élections in un settimanale da lui stesso edito (21). Egli proponeva qualcosa di simile al metodo Lull con confronti a coppie prevedendo nel caso non si verificasse uno stesso vincitore in tutti i confronti (definito come vincitore Condorcet) di scartare la preferenza con la maggioranza più esile. Tuttavia il problema maggiore restava quello del gran numero dei confronti necessari: una macchinosità non appropriata a larghe platee di elettori.
Mentre ancora si discute dei due metodi alternativi, Borda e Condorcet, entra in gioco un eminente matematico francese, Piere-Simon de Laplace (22). Nel 1796 l’Académie des Sciences aveva adottato il metodo Borda pe l’elezione dei nuovi membri. Tuttavia si era levata contraria una voce, di un membro dell’Accademia di particolare peso: Napoleone Bonaparte aveva ripreso delle critiche formulate anni prima dallo stesso Laplace, il rischio cioè di manipolazioni mediante il voto strategico. Laplace ne ricavò in seguito una lezione per i suoi studenti dell’École Normale Supérieure nel 1795 (pubblicata poi nel 1812): concordava con Borda e Condorcet sulla possibilità che le decisioni prese a maggioranza potessero essere imperfette, tanto più – aggiungeva – quanto più era grande il gruppo degli elettori. Il metodo Borda poteva funzionare solo con elettori ben informati sulle scelte da fare e solo se gli elettori fossero stati sinceri nelle loro valutazioni: il rischio era che si collocasse un candidato in fondo alla lista non tanto per suo demerito ma perché rappresentava una minaccia al proprio candidato preferito. Vi era inoltre la possibilità che si inserissero dei candidati senza alcuna possibilità di vincere solo per poterli votare in una posizione intermedia tra il candidato preferito ed il rivale più pericoloso. Questa era dunque la critica al metodo Borda sui rischi del voto strategico. E Borda poteva reagire solo dicendo che il suo metodo era pensato «solo per persone oneste». Dunque oggi un partito, cioè una organizzazione di persone con i medesimi ideali e finalità, potrebbe adottare tranquillamente il metodo Borda o altrimenti dovrebbe ammettere che i suoi iscritti non sono del tutto persone oneste, ma di questo parleremo più avanti…
Laplace intanto non proponeva alcun rimedio se non il ricorrere alla maggioranza assoluta. Era in effetti l’innovazione introdotta dall’ Académie des Sciences nel 1804 per eleggere suoi nuovi accademici, ma questa ben poteva attendere che su una proposta per riconoscere un nuovo socio si formasse la maggioranza del 50 per cento più uno degli elettori, ben diversa era la situazione in altri casi. Laplace individuò dunque la soluzione, banale, per risolvere in breve tempo la scelta tra più candidati sotto alla maggioranza assoluta: non altro che il doppio turno alla francese come invocato da tempo e a più voci per risolvere oggi l’incerta situazione politica italiana. Il ballottaggio odierno in Francia ristretto ai due candidati in testa non è esattamente quanto pensava Laplace, ma tant’è! Egli si era piuttosto dedicato alle corti di giustizia, proponendo, sulla base del calcolo di probabilità; che le sentenze di colpevolezza dovessero contare su una maggioranza qualificata di 9 giurati su 12 (piuttosto che di 5 su 8 come allora era stabilito).
Parecchi anni dopo entra in campo un altro curioso personaggio, Charles Ludwidge Dodgson (23), più noto sotto lo pseudonimo di Lewis Carroll e come autore di Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie. Egli insegnava al collegio della Christ Church di Oxford ed essendo stato coinvolto nel 1873 in una procedura per l’assegnazione di una borsa di studio si era interessato alla questione tanto da elaborare un trattato sul metodo elettorale che scrive, stampa e distribuisce in pochi giorni: A discussion of the various merthods of procedure in conducting elections. Anch’egli rileva le ingiustizie del voto a maggioranza ed utilizza come esempio il seguente risultato paradossale con 4 candidati ed 11 elettori

B risulterebbe senz’altro vincente a maggioranza (6 voti su 11, quindi oltre il 50% dei voti). Ma a ben vedere si tratta di una scelta che vede nettamente contrari 5 votanti su 11 (che lo mettono all’ultimo posto della loro graduatoria di preferenze, mentre invece tutti gli elettori mettono al primo o al secondo posto l’opzione A. Sarebbe dunque sensata l’elezione di B? Il metodo dei confronti a coppie darebbe poi risultati strampalati essendo casuali gli abbinamenti delle coppie. Dodgson/Carroll espone quindi un nuovo metodo che comporta di scartare l’opzione che riceve meno preferenze al primo posto, e riformulato il riepilogo delle scelte di scartare nuovamente l’opzione che così riceve meno preferenze al primo posto, e così via anche questo metodo come dimostra il suo stesso autore può comportare risultati paradossali contraddicendo le preferenze iniziali. Infine si propone un metodo del tutto nuovo: ad ogni elettore son messi a disposizione un certo numero di punti che egli può destinare come crede anche concentrandoli su uno o più candidati preferiti, ma anche questo metodo sarebbe sconsigliabile poiché gli elettori sono egoisti e non sinceri. Fin qui molte le analogie con i lavori di Borda e Condorcet che certamente Dodgson/Carroll non conosceva e comunque le coincidenze sono significative! Le innovazioni proposte stavano invece nell’indicare la necessità di inserire a disposizione degli elettori anche l’opzione nessuna delle alternative proposte e nell’introdurre la possibilità di assegnare uno stesso punteggio ai candidati ritenuti alla pari nelle preferenze mirando a depotenziare le possibilità di voto strategico. Tuttavia messe alla prova le proposte di Dodgson/Carroll su casi concreti occorsi alla Christ Church esse non dettero buone soddisfazioni all’autore che in seguito scrisse altri due saggi sui sistemi elettorali indicando infine la possibilità di interrompere un ciclo di preferenze conteggiando i possibili scambi di preferenze fino ad individuare il vincitore in colui che risulterebbe primo col minor numero di scambi… un po’ complicato a dirsi e peggio a calcolare tanto che nel 1989 tre docenti di teoria della gestione (24) poterono dichiarare che anche avvalendosi di computer l’elaborazione dei calcoli richiesti da Dodgson rientrava tra i problemi sostanzialmente insolubili.
Malgrado le migliori aspettative di un metodo elettorale giusto ed efficiente, una ulteriore delusione viene da un altro Premio Nobel per l’economia (25), lo statunitenseKenneth Arrow (26). Anch’egli ritiene che il voto a maggioranza semplice non sia accettabile per stabilire una preferenza sociale, derivata cioè da preferenze individuali; non è neppure possibile in alternativa sommare il peso delle scelte individuali delle persone perché ciascuno ha una propria scala di utilità specifica e individuale che non può essere paragonata a quella di un’altra persona. Arrow basa comunque le sue analisi su due assiomi: che una persona può sempre prendere una decisione rispetto a due alternative (anche essendo indifferente o rifiutando entrambe) e che le preferenze di una persona razionale devono avere carattere transitivo (se preferisco il succo di frutta all’acqua e l’acqua al latte significa anche che preferisco il succo di frutta al latte). Nel 1951 Arrow dimostra, in termini strettamente matematici, l’impossibilità di avere una legge elettorale non esposta alla possibilità di un utilizzo non equo da parte dell’elettore. La sua formulazione, nota come Teorema dell’Impossibilità, afferma in sostanza che «se ci sono più di due alternative, non esiste nessun sistema di votazione democratico», essa si accompagna al Teorema della Possibilità secondo il quale se vi sono solo due alternative, il voto a maggioranza rappresenta un meccanismo di scelta accettabile sebbene non soddisfi una delle condizioni di un meccanismo razionale, quella di assicurare l’universalità delle preferenze (tecnicamente: dominio non ristretto). Intervistato parecchi anni dopo da Piergiorgio Oddifreddi, Arrow sosteneva che per le cariche monocratiche andava certamente bene il sistema preferenziale a turno unico a maggioranza assoluta, e venendo questa a mancare procedendo a nuova votazione dopo aver eliminato il candidato che aveva raggiunto meno preferenze, mentre per le assemblee era preferibile una combinazione di quota uninominale (eletta col criterio di cui sopra) e di quota proporzionale (non partitica, ma individuale) (27).
In seguito, ancora un altro Premio Nobel per l’economia (28), Amartya Sen (29) ritorna sui meccanismi elettorali che soddisfano i requisiti individuati da Arrow, tranne che per la transitività e prova ad attenuare questo requisito in quello di quasi-transitività. Ad esempio se un comitato locale preferiva la realizzazione di un teatro alla realizzazione di uno stadio di calcio e questa alla realizzazione di una pista di pattinaggio, non necessariamente poteva conseguire la preferenza del teatro alla pista di pattinaggio: il comitato poteva anche essere indifferente alla scelta tra calcio e pattinaggio. Ma questo perfezionamento della teoria non era poi un gran risultato!
Per maggiore sconforto generale [ma non – s’immagina – per le oligarchie di partito], in un seminario dedicato al processo decisionale nelle organizzazioni organizzato nel 1969 da Arrow, Sen e dal filosofo John Rawls, viene esposta una tesi di dottorato sulla manipolazione delle elezioni che ha poi successo come Teorema di Gibbard-Satterhwaite. I due autori dimostrano che qualsiasi metodo democratico che pretenda di eleggere un vincitore tra almeno tre candidati può essere manipolato (essere cioè oggetto di manipolazioni strategiche). È curioso che in Italia un partito – che ha la parola democratico nel suo stesso nome, dopo la parola partito, svolga assai spesso primarie con tre e più candidati senza preoccuparsi in alcun modo di ciò.
Fatte queste sconfortanti premesse e constatato che l’unica modalità di svolgimento delle primarie qui in Italia è stata quella della preferenza secca a prescindere dal numero dei concorrenti ci si dovrebbe almeno chiedere se sia possibile qualcosa di diverso, di meno peggio, più democratico e più equo ed anche più produttivo per la comunità che vota. Va annotato che malgrado qualche autorevole osservazione sia intervenuta negli ultimi anni, anche a seguito delle criticità emerse in talune primarie, il maggior interessato, il Pd cioè, si è fin qui ben guardato dall’avviare una riflessione in merito (forse a voler confermare la giustezza della ferrea regola dell’oligarchia di Michels?).
Uso qualche ritaglio di giornale conservato nella mia cartellina solo per mettere in fila un po’ di esempi:
- Già nel 2011, Giovanni Sartori evidenziava le criticità delle primarie: la probabilità che esse estremizzino la scelta dei candidati e che il candidato scelto dagli elettori delle primarie, molto politicizzati, non corrisponda affatto all’aspettativa media dell’elettore reale, nonché il rischio di derivazioni frazionistiche a seguito del serrato confronto tra le organizzazioni elettorali di ciascun candidato (30).
- Considerando gli aspetti più degenerativi delle primarie e cioè i comportamenti aggressivi dei candidati nell’asprezza del confronto, il senatore Pietro Ichino proponeva nel 2012 di avvalersi del sistema adottato (nel 2010) dal partito laburista inglese per l’elezione del suo segretario, cioè il metodo della seconda scelta, da far valere se nessuno dei candidati ottiene il 51% delle preferenze (31).
- A proposito delle primarie del 2014 per il Comune di Padova, Umberto Curi stigmatizzava che uno dei candidati del Pd si fosse ritirato «in nome dell’unità del Partito», ma è una motivazione inconsapevolmente comica che attesta che le primarie sarebbero servite solo pro forma per consacrare l’altro candidato – forte – del Pd (… e che nei fatti sarebbe poi risultato perdente!) (32).
- La vicenda delle primarie in Liguria nel 2015 risultava assai imbarazzante per qualche distorsione patologica (votanti di centrodestra alle primarie del centrosinistra, ecc.) (33). Piero Ignazi osservava che se la scelta doveva essere affidata ai cittadini e non più agli organi ed ai maggiorenti di partito, si è invece ottenuto l’imprevisto risultato di favorire da un lato proprio i notabili locali, collettori di reti di consenso personale e dall’altro i «cavalieri solitari» che competono senza esser stati abbastanza socializzati alla vita, alle regole, alle finalità stesse del partito che rappresenterebbero, deprimendo con questo il ruolo stesso del partito (34). Nello stesso periodo, la vicenda del sindaco Marino, a Roma, veniva etichettata come «il fallimento definitivo delle primarie made in Pd» (35).
- Traguardando le primarie della primavera 2016, Michele Salvati evidenziava come le primarie potessero dare indicazioni diverse dagli orientamenti dei potenziali elettori reali, influenzate come sono dalle strutture locali di partito e anche da possibili «interessi forti» locali (36).
- L’anno seguente, ad esito delle primarie per il candidato sindaco di Vicenza, un diretto interessato constatava sulla stampa che le primarie sono un sistema imperfetto e che «vincono i più bravi o i più organizzati» (37) e, di più, emergevano preoccupazioni per gli aspetti penali di tali vicende (38).
- Si evidenziava pure il problema dell’assenza di regole comuni – per tutti i partiti – per la scelta dei candidati e la convinzione che un codice per la selezione dei candidati riavvicinerebbe i cittadini (39).
Nel complesso, il tentativo di Borda di impostare un metodo elettivo ragionevole è quello più concreto, sebbene debba scontare le critiche, pure ragionevoli, del girondino Condorcet, di Arrow & C.. Si conferma nella sostanza la linea definita anni prima da Rousseau sulla «sovranità che non può essere rappresentata per la stessa ragione che non può essere alienata» (40) e anticipando di molto, come sottolinea oggi Luciano Canfora, la constatazione del rischio della trasformazione dei rappresentanti eletti in ceto politico, in soggetti cioè separati dalla base che li sceglie e largamente autoreferenziali (41). Certamente il metodo Borda trascura la questione del peso da attribuire alle diverse scelte in scala di preferenza, ma evita senz’altro i limiti del sistema della preferenza secca fin qui usato per le primarie italiane (del Pd) e del resto ben si possono ipotizzare opportune regole correttive. C’è pure da chiedersi se il rischio del voto strategico sia davvero una calamità da evitare ad ogni costo in una comunità-partito-coalizione che pure dovrebbe ben reggersi su solidi fondamentali di coesione. Facciamo un esempio attingendo ad una ipotesi da fantasy, Ppcd, una organizzazione politica del futuro (Partito più che democratico) organizza le primarie per scegliere il proprio leader; esse sono aperte a tutte le formazioni superstiti di decenni di sconfitte al centro e a sinistra. Molti sono i candidati, volti vecchi e nuovi, che si presentano alla competizione secondo le regole del monsieur Jean-Charles de Borda. Qualche non smemorato elettore, di carattere metodico secondo la classificazione tipologica della scuola di Groninga (42), formula la sua graduatoria di preferenza dal migliore a quelli ritenuti peggiori anche se di innegabile spessore, posizionando questi ultimi alle spalle di diversi candidati mediocri, secondo lo schema seguente (i nomi sono di fantasia); sarebbe la sua una forzatura tattico-strategica oppure una scelta pienamente legittima, motivata e rispettabile/accettabile?

C’è pure da chiedersi se fu esattamente il Teorema dell’Impossibilità che valse ad Arrow il Nobel per l’economia nel 1972. Ad ogni modo, a supporto delle qualità del metodo Borda si trova su Wikipedia un accattivante esempio. Si tratta di 4 città (A, B, C, D) che devono decidere in quale di esse debba essere costruito il loro nuovo ospedale.

È plausibile che ogni votante preferisca che l’ospedale sia costruito il più vicino possibile a dove abita, dunque i voti di preferenza possono esser quantificati in rapporto alla popolazione dei quattro centri (rispettivamente pari al 42, 26, 15 e 17% dei votanti) secondo l’ipotesi schematizzata in appresso.

Nella tabellina seguente sono riportate le graduatorie ricavabili nelle ipotesi che tali primarie siano condotte col metodo oggi in uso della maggioranza secca oppure con il metodo Borda.

Ovviamente si tratta di una ipotesi assai semplificatoria che non tiene conto che qualche elettore di C o di D, piuttosto che fare la sua prima scelta di campanile, potrebbe, valutando il peso determinante dei molti abitanti di A, azzardare di puntare su B cercando di evitarsi almeno 30 km supplementari di distanza dal nuovo ospedale. B potrebbe cioè risultare vincitore anche a maggioranza secca, in un contesto di elettori rivolti all’utilità reale. Tuttavia i risultati reali della più recente tornata elettorale, del 25 settembre 2022, fanno pensare che parecchi elettori piuttosto che badare all’utilità reale del loro voto badino semplicemente a votare quel che più gli piace, esattamente come si vota – giustamente – per un premio letterario. Comunque sia, a prescindere dalle disquisizioni sulle propensioni di voto, sempre opinabili, il pregio della soluzione Borda applicata alla localizzazione del nuovo ospedale è che farebbe vincere la cittadina più baricentrica (in senso geografico e demografico), quella cioè tutto sommato più conveniente agli elettori nel loro complesso: … e più economica per la collettività del comprensorio! Sarebbe cioè una buona soluzione anche in senso tecnico in quanto corrisponderebbe ad almeno una delle analisi che si dovrebbero svolgere per un corretto studio costi-benefici per la realizzazione di una infrastruttura così significativa per il territorio.
Un sostegno a questo metodo deriva dal Teorema dell’elettore mediano, enunciato nel 1948 dall’economista scozzese Duncan Black (43), secondo il quale ogni elettore ed ogni candidato occupano una posizione nello spazio delle opinioni (a una o più dimensioni che sia) e gli elettori preferiscono certamente il più vicino dei due candidati al più distante e il candidato vincente è certamente quello più vicino alla mediana degli elettori.

Un aspetto importante di qualsiasi metodo elettorale non attiene tanto ai conteggio, quanto alle possibilità di scelta reale: è il caso di ricordare che Norberto Bobbio considerava come requisito fondamentale della democrazia, oltre che all’attribuzione del potere di decisione ad un numero molto alto di soggetti ed alla regola fondamentale della maggioranza, anche una terza condizione, che cioè gli elettori siano posti di fronte ad alternative reali e siano messi nelle condizioni di poter scegliere tra l’una e l’altra (44). È evidente che restringere le alternative di voto nelle primarie – un fatto dovuto al sistema stesso – attuale – del voto ed alla sua gestione da parte delle oligarchie politiche – costituisce una grave diminutio della democrazia mentre invece il metodo Borda tenderebbe a incentivare una più larga partecipazione
Insomma, il metodo realmente disponibile, ora, alternativo alle primarie a maggioranza secca, è il vecchio sistema Borda, con qualche possibile affinamento, e definibile anche con l’espressione a preferenze graduate. A ben vedere è oggi in uso negli USA per l’attribuzione di premi sportivi (ad es. al miglior giocatore di baseball). Una sua variante è nota come voto alternativo o ballottaggio/secondo turno istantaneo e negli Stati Uniti come ranked-choice vote; (RCV) all’elettore è chiesto di esprimere un suo ordine di preferenza sui candidati, che verrà utilizzato qualora nel collegio (unipersonale) nessun candidato ottenga la maggioranza assoluta, simulando in sostanza più scrutini nei quali viene eliminato il candidato ultimo classificato e le seconde preferenze ad esso associate sono distribuite agli altri candidati fino a che uno di essi non ottiene la maggioranza assoluta. Il RCV è stato recentemente utilizzato alle primarie democratiche di New York (45). Il metodo Borda viene pure utilizzato sostanzialmente per le elezioni parlamentari in Slovenia e nelle repubbliche micronesiane di Nauru e Kiribati e in Nuova Zelanda (46). Esso ha qualcosa a che vedere con il lontano e complicato sistema elettorale australiano e con quello irlandese che si prefigge di garantire una rappresentanza parlamentare alle minoranze (47) nonché con il metodo quacchero della ricerca della soluzione condivisa.
Il sistema non dovrebbe apparire troppo complicato all’elettore, tanto più se ha già digerito il funzionamento del Rosatellum. Con ad esempio 7 candidati, il votante sarebbe chiamato ad attribuire a ciascuno dei 7 candidati un punteggio graduato da 1 a 7 (secondo l’ordine di preferenza: 7, 6, 5, …); vincerebbe il candidato che somma il maggior numero di voti-preferenza. Va da sé che nell’ipotesi di numeri elevati di candidati, si può, per semplificare le operazioni di voto e di scrutinio, restringere la scheda di valutazione ad un numero ristretto di candidati, anche per evitare l’imbarazzo di scaglionare in graduatoria quelli in fondo alla classifica personale dell’elettore.
Questo sistema elettorale (un po’ più complicato, solo per i conteggi degli scrutatori) dovrebbe consentire i seguenti effetti positivi:
a) la procedura di voto, più complessa, garantirebbe maggiore consapevolezza e motivazione dei votanti;
b) vincerebbe il candidato mediamente più gradito (e presumibilmente più volentieri votabile, alle elezioni vere, anche da chi non lo ha indicato come prima scelta e dalla platea reale degli elettori);
c) ci sarebbero più concorrenti, anche su posizioni politiche vicine (perché nessuno sostanzialmente danneggerebbe altri prendendo preferenze da un comune bacino di voti);
d) avrebbero minor peso i meccanismi di selezione a monte, da parte cioè delle oligarchie di partito;
e) avrebbero minor peso i meccanismi di sponsorizzazione esterna e di accaparramento di voti;
f) il risultato darebbe una scala di preferenze dei candidati, piuttosto che una divisione in percentuali;
g) nei casi di infortuni (di qualsiasi tipo) resterebbe comunque a disposizione una graduatoria di preferenze valida anche con il venir meno del candidato vincente.
Ancora qualche considerazione prima di concludere. Sabino Cassese ha affrontato il problema dei limiti della democrazia (48). Una delle sue riflessioni riguarda il come ascoltare il popolo e cioè le formule elettorali. Oltre alle espressioni collettive (assemblee, dimostrazioni, ecc.), il popolo si esprime individualmente con il voto: su singole questioni (referendum) o su persone da scegliere per governare (elezioni). Dopo le esperienze negative della cosiddetta partitocrazia (nella quale erano i partiti a governare gli eletti), le più recenti misure elettorali, dopo aver puntato a mettere la scelta del governo nelle mani degli elettori piuttosto che del parlamento, hanno rimesso in sostanza ai partiti la scelta dei candidati e dunque in pratica anche degli eletti. Da qui viene la necessità di affrontare anche il tema della democrazia nelle candidature. Un tema non disgiunto ovviamente da quello della crisi dei partiti (riduzione degli iscritti e dei militanti, sviluppo del leaderismo, organizzazione fluida e venir meno in sostanza della macchina dei partiti novecenteschi capace di reclutare, formare, mettere alla prova, selezionare). Cassese evidenzia dunque che «le primarie servono a compensare la debolezza dei partiti-organizzazione», sono cioè «una prova di debolezza della democrazia» e registra pure la questione dei limiti degli elettori: ignoranza, disinformazione, il loro essere spesso prigionieri di bias cognitivi (giudizi, o pregiudizi, non necessariamente corrispondenti all’evidenza), questione molto allarmante e ben studiata, sulla base di sperimentazioni concrete, da Daniel Kahneman (49). Più recentemente, Cassese ha ancora sottolineato il ruolo e la necessità dei partiti «perché non vi è altro modo con il quale la società possa dialogare con il governo, la piazza farsi ascoltare dal palazzo. Ma i partiti debbono ridiventare forze vive, uscire dagli schemi consueti e interrogare la nuova realtà, intercettare una domanda di politica tanto viva quanto insoddisfatta, selezionare nuovo personale, fare programmi, individuare chi sappia tradurli in realtà» (50).
Temi tutti, a ben vedere, affatto nuovi anche se la crisi degli assetti tradizionali della politica ne ha oggi reso acuminate le asprezze poiché da tempo ormai siamo passati dalla fase storica dei partiti di massa, radicati in un sistema di classi sociali e di ideologie, a quella dei partiti pigliatutti, che si rivolgono senza remore al mercato elettorale nella sua interezza (51). Pare utile quindi, per meglio inquadrare storicamente i problemi che oggi abbiamo davanti, ricordare la lucidità di una analisi politica del lontano 1968: solo alcune frasi dalla lunga lettera di dimissioni di Lidia Menapace dalla Democrazia Cristiana: «la funzione di questo partito si riduce piuttosto alla mobilitazione degli elettori in quanto persone private, per acclamazioni collettive che non alterano sostanzialmente la loro immaturità politica», «i partiti sono strumenti per la formazione della volontà, ma non sono nelle mani del popolo, bensì nelle mani di coloro che dominano il loro apparato», «l’opinione pubblica viene prodotta, non è più “data”», «se ciascuno dei militanti o degli iscritti dovesse esaminare il grado di partecipazione reale di cui fruisce, non potrebbe se non concludere che esso è ben scarso o quasi inesistente» (52) … la preoccupazione era quella dello sviluppo di una democrazia autoritaria e di un sistema per rendere sempre più difficile la partecipazione.. E tuttavia, lavori anche molto pregevoli di analisi della struttura organizzativa, e della effettiva democraticità, di un partito fortemente impegnato nelle primarie, aperte o chiuse che siano, trascurano ancora di analizzare le diverse possibili modalità di tenerle, a preferenza secca o meno (53).
Dunque, in conclusione, tre domande sulle primarie:
- i partiti, a cominciare da quelli che qui in Italia hanno cominciato a praticare le primarie (Pd e 5stelle), ma anche le sempre più articolate organizzazioni che si affacciano nelle competizioni elettorali locali, vorranno porsi il problema di come meglio farle?
- forse che sistemi di preferenze graduate come quello sopraricordato si potrebbero utilizzare nelle primarie, di partito e di coalizione, per la selezione di candidati alle cariche pubbliche, e magari anche per l’elezione degli organi dirigenti dei partiti quando troppe volte questa si esaurisce invece in un inutile rito confermativo di scelte già maturate tra i capicorrente (termine non elegante ma efficace)?
- qualche paletto per lo svolgimento delle primarie si potrebbe pure infilare in norma di legge attuativa – finalmente! – dell’articolo 49 della Costituzione, sui partiti, … almeno per poter perseguire nelle sedi di giustizia coloro che non ne rispettano le regole (54)?
Pare chiaro tuttavia che il Pd non ha alcuna seria intenzione di affrontare davvero il problema; un recente caso emblematico ed imbarazzante di mancate primarie è stato quello delle amministrative comunali di Venezia del 2020 nelle quali il candidato, scelto dagli apparati del partito, è stato seccamente battuto dal rivale del centrodestra già al primo turno. Nessuna successiva riflessione al riguardo. Solo un solitario ricorso agli organi di garanzia per il mancato svolgimento delle primarie, malgrado obbligato a termini statutari e da opportunità politica, che attende ancora risposta, dopo ben oltre due anni, dalla Commissione Nazionale di Garanzia (55). Analogo effetto un paio di anni dopo per le mancate primarie a Belluno dove a fronte di almeno tre aspiranti alla candidatura a sindaco nell’area del centrosinistra si è avuto il risultato di due candidati-rivali del centrosinistra battuti al primo turno dal candidato di centrodestra.
Se il problema è dunque quello del conteggio delle preferenze distribuite su un numero discreto di candidati, comunque tendenzialmente da evitare con ogni mezzo da parte delle oligarchie di partiti [in cattivo stato di salute], siamo dunque ancora ad un sistema piuttosto rozzo, basato su una pre-selezione dei candidati in base ad un quorum di firme di presentazione (magari abbastanza alto per evitare troppi partecipanti alla gara) ed alla selezione semplicemente del più votato, a prescindere dalla stima certamente operata da ogni votante circa l’efficacia del proprio voto sull’uno o l’altro dei candidati più prossimi alla sua scelta ideale in rapporto alla sua stima generale delle possibili probabili preferenze espresse dal corpo elettorale ed a prescindere dal fatto che stime analoghe possano addirittura spingere taluno a candidarsi o meno.
Due più uno deve dunque fare tre per la politica a prescindere (a non voler tener conto) dai moti minuscoli che pur agitano ed influenzano ciascun votante, una sorta di moto browniano (56) il quale, limitato all’agitarsi disordinato di minuscoli granelli di polline nell’acqua, pure portò Einstein a ragionare sull’effetto cumulativo di molti, di per sé trascurabili, moti. Sarà forse il caso di riflettere, dopo il voto del 25 settembre, se il moto browniano che ha colpito buona parte degli elettori del – si passi il termine – centrosinistra al cospetto delle opzioni disponibili in cabina elettorale non sia stato responsabile di qualche defezione e peggio. E, per concludere, una epigrafe finale:
«…nella riunione riservata ai delegati per stabilire i sistemi di elezione del comitato centrale, avanzai pubblicamente la proposta, che avevo avanzato in altre e precedenti meno solenni occasioni, dell’abbandono del sistema della lista unica. La proposta fu respinta senza neanche essere messa in discussione, credo non sia stata neanche verbalizzata» (Emilio Rosini, L’ala dell’angelo, itinerario di un comunista perplesso, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2003)
note
1 Fonte: G. Antonelli, Un dio (o un refuso) all’origine delle quirinarie, in La lettura – Corriere della sera, 14 gennaio 2022.
2 In: Zur Soziologie des Parteiwesens in der modernen Demokratie, Lipsia, 1911.
3 Vedasi al riguardo: Marco Revelli, Finale di partito, Torino, Einaudi, 2013, p. 38 e ss. e La politica senza politica, Torino, Einaudi, 2019, cap. II.
4 1924-2017.
5 1632-1704.
6 Giovanni Sartori, Democrazia. Cosa è, Rizzoli, 2007 (cap. 6.3).
7 Nadia Urbinati, Democrazia in diretta. Le nuove sfide della rappresentanza, Milano, Feltrinelli, 2013.
8 1743-1826.
9 Debbo i cenni seguenti all’ottimo lavoro di George G. Szpiro, Numbers Rule. The Vexing Mathematics of Democracy From Plato to the Present, Princenton University Press, 2010; in italiano: La matematica della democrazia. Voti, seggi e parlamenti da Platone ai giorni nostri; Bollati Boringhieri ed., 2013.
10 428-348 a.C.
11 61-114.
12 1232-1366.
13 1401-1464.
14 La copia di Cusano del De arte electionis è l’unica oggi esistente, assieme a tutta la biblioteca del cardinale fu lasciata in eredità all’ospizio dei poveri della sua città natale; grazie alla riconosciuta importanza di questo lascito storico la cittadina fu risparmiata dai bombardamenti alleati nella seconda guerra mondiale.
15 Krebs in tedesco significa granchio, … come il nome di mr. Krabs del cartoon SpongeBob.
16 I Kurfürsten, da non confondere con l’omonimo liquore.
17 1733-1799.
18 In:Histoire de l’Académie Royale des Sciences, Parigi, 1784.
19 1743-1794.
20 Contract social, 1762.
21 Journal d’Istruction Sociale, n. 1, Parigi, 1° giugno, 1797
22 1749-1827.
23 1832-1898.
24 John Bartholdi, Craig Tovey, Michael Trick.
25 1972.
26 1921-2017.
27 P. Oddifreddi, La democrazia non esiste. Critica matematica della ragione politica, Rizzoli, 2018, pag. 197.
28 1998.
29 India, 1933.
30 G. Sartori, Rischi e stranezze di una scelta. Le primarie fanno male al Pd, in Il Corriere della Sera, 3 gennaio 2011.
31 P. Ichino, Proposta per il Pd e oltre. Togliano aggressività alle primarie, in Il Corriere della Sera, 9 ottobre 2012.
32 U. Curi, Il caso Padova. Sì alle primarie se sono vere, in Il Corriere del Veneto, 18 gennaio 2014.
33 A. Polito, Nate come strumento di trasparenza, le consultazioni per la scelta dei candidati sembrano una replica grottesca della vecchia politica. Come dimostra il caso della Liguria. Per elezioni davvero democratiche servono regole certe. Il voto “cammellato”. Primarie al tramonto, in Il Corriere della Sera, 13 gennaio 2015.
34 P. Ignazi, Il Pd e il bivio delle primarie, in La Repubblica, 19 ottobre 2015, ove si afferma pure che «lo spirito delle primarie è uscito dalla lampada e la domanda di partecipazione diretta alle scelte non si spegne».
35 S. Rizzo, Dalle primarie al notaio, un fallimento da non ripetere. in Il Corriere della Sera, 31 ottobre 2015.
36 M. Salvati, Paradossi. Il Pd ostaggio delle primarie. Sono il marchio del partito, in Il Corriere della Sera, 19 ottobre 2015.
37 Intervista al sindaco uscente sul Corriere del Veneto del 5 dicembre 2017.
38 A. Cazzullo, Davigo: con i processi sulle primarie capiremo come funzionano i partiti, in Il Corriere della Sera del 29 settembre 2016, intervista all’ex magistrato.
39 F. Verderami, I partiti e quelle regole rimaste in sospeso, in Il Corriere della Sera, 13 settembre 2017.
40 Contract social, 1762.
41 L. Canfora, La democrazia. Storia di una ideologia, 2004, cap. V.
42 Uno degli otto tipi della classificazione generale: non emotivo-attivo-secondario (cfr.: L. Talamonti, Guida al carattere, 1976).
43 1908-1991.
44 N. Bobbio, Le regole del gioco democratico, in Il futuro della democrazia, Einaudi, 1984.
45 Corriere della sera, 22 giugno 2021, si citano le precedenti sperimentazioni del metodo in India, Irlanda, Australia.
46 V.: Wikipedia: “votazione classificata”, “metodo Borda”, ecc.
47 Definito come metodo del voto singolo trasferibile.
48 S. Cassese, La democrazia e i suoi limiti, Milano, Mondadori, 2017, p. 110-111.
49 Per quanto possano pesare, nelle scelte semplificate offerte dai meccanismi della politica, le dinamiche psicologiche, si veda l’analisi di Daniel Kahneman (premio Nobel per l’economia) in Pensieri lenti e veloci, Milano, Mondadori 2011.
50 S. Cassese, I partiti servono, ma ora cambino, in Il Corriere, 2 giugno 2022.
51 P. Ignazi, Forza senza legittimità, il vicolo cieco dei partiti, Bari, Laterza,2012., cap. II.
52 Integralmente pubblicata sul settimanale Sette giorni in Italia e nel mondo, n. 57 del 14 luglio 1968.
53 A. Floridia, Un partito sbagliato. Democrazia e organizzazione nel Partito Democratico, Roma, Castelvecchi Ed., 2019.
54 A. Polito, Primarie, Ora regole per salvarle, in Il Corriere della Sera, 8 marzo 2016; m. magatti, Statuti, bilanci e democrazia interna. I paletti (assenti) sulle regole dei partiti, in Il Corriere della Sera, 17 agosto 2014.
55 Chi scrive deve ammettere che cita sé medesimo.
56 Fenomeno evidenziato da Robert Browne (1773-1858), botanico britannico.