Un’Aurora liberale ed europea
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1 Giugno 2024Se c’è un’area del Comune di Venezia dove la parola ri-generazione ha un senso è quella dei cosiddetti Pili, che precede il Ponte della Libertà. I Pili sono i due pilastri in pietra d’Istria che demarcano sui due lati l’inizio del ponte, istoriati dai leoni marciani. La si veda, l’area, in alcune foto d’epoca risalenti agli anni ’50. È ancora una landa aperta, priva di vegetazione, che fa da base di terra al Ponte. Ci sono (e quelli si sono mantenuti) spazi di barena, gli unici conservati di tutta l’immensa area barenale interrata con Porto Marghera. In settant’anni la vegetazione, semi arborea e ancora molto arbustiva, ha colonizzato i terreni, ma non è difficile immaginarsi che essi si siano inquinati, come tutto il resto attorno. La stessa cosa dicasi della vicina Isola delle Statue. Unico intervento, da quando esiste dal 1933 il ponte automobilistico, il Cavalcavia di San Giuliano, che dal ponte immette nell’area di San Giuliano. Fino a quel momento le due zone di gronda, tagliate dalla doppia cesura di ferrovia e strada automobilistica, se ne stavano totalmente separate dal 1846 e inaccessibili reciprocamente.
Nel tempo quest’area si è consolidata come un vuoto urbano lungo quasi un chilometro e largo 600 metri. Fatto di sterpaglia, boscaglia, erbe infestanti, pozze e laghi putridi, e tratti di terre spianate, ancora vuote e prive di vegetazione per usi ora dismessi, ma in via di colonizzazione erbacea.
Ce ne sono altri di vuoti urbani tra terra e laguna, ma come questo è difficile trovarne uno più evidente, anche per la posizione, che obbliga ad attraversarlo essendo l’accesso alla città storica e alla laguna. L’unico accesso da terra, per la mobilità su ferro e su gomma, da quasi due secoli, una vergogna imputabile a tutti, ma proprio tutti i governi cittadini dal dopoguerra in qua. Incapaci di visione, ma anche di senso estetico. Il vuoto dei Pili è anche il simbolo del fallimento dell’integrazione tra città storica, laguna e terraferma, non l’unico simbolo (purtroppo ce ne sono tanti), ma il più eclatante e vistoso (o invisibile, per chi quando ci transita è come in apnea, trattiene il fiato, oppure lo vede da così tanto tempo che non lo vede più).
In un contesto del genere il ri-generare troverebbe una palestra d’eccezione.
(Ma cosa ci si può aspettare, se quest’area come molte altre, è al centro di un estenuante scontro tra tutte le mediocrità politiche che si confrontano in città? La volta scorsa ho parlato dell’ostacolo che i lacci e lacciuoli tecnico giuridici forniscono al ri-generare, qui nella lista ancora incompleta metto la politica mediocre che da anni va in scena in città in tutto l’arco politico da chi governa a chi vi si oppone. L’abbinata fa dei progetti di ri-generazione una palestra virtuale, dove si dicono cose che hanno la consistenza dei sogni. Bisogna dirle lo stesso per consegnare alle generazioni future una possibilità e un percorso).
La ri-generazione di un’area come i Pili dovrebbe per tutte queste ragioni fornire l’occasione della scommessa tra le scommesse della ricucitura territoriale, perché ri-cucire è un atto basico del ri-generare. E qui la fantasia si può applicare a qualsiasi idea che presenti una funzione urbana di senso.
E’ vero, Antonio Di Mambro, l’urbanista che ha progettato il Parco di San Giuliano, voleva i Pli come parte di parco in continuità con la parte già realizzata al di là del Canal Salso. Per la verità Di Mambro allargava il parco fino a comprendere anche tutta l’area più a sud, dentro al water front di Porto Marghera, dove è insediata da più di un secolo l’attuale Raffineria di Venezia (o come si chiama adesso, ho perso il conto dei nomi…). Ma a non mi pare che ci sia da parte di quest’ultima la minima intenzione di sbaraccare e sloggiare per far posto all’estensione del parco. Avrebbe senso allora ai Pli un parco che viene vistosamente delimitato dalla raffineria? Forse si, magari il contrasto stesso ridà senso. E allora si vada in modo deciso e coerente in quella direzione e non se ne parli più. Ovunque si situino i parchi e qualsiasi sia la loro costituzione, rimboschimento vero naturale, o verde attrezzato, sono pezzi di territorio qualificati e costituiscono ricucitura.
Vero è che dopo Di Mambro e il suo progetto sull’area si sono esercitati anche tutta una serie di progetti “altri”, definiti scandalosi dai puristi e che non sarebbero invece da scartare a priori.
In realtà, visto che dall’altra parte c’è appunto il Parco di San Giuliano realizzato, non sarebbe stato e non sarebbe ancora per nulla scandaloso se ai Pili si fossero progettate anche funzioni urbane edificate e infrastrutturate, pur in presenza di pezzi di parco e mescolate ad esso, con il coraggio di fare quello che gli ingeneri del comune Miozzi e Rosso sul finire degli anni ’30 avevano immaginato e progettato per la gonda lagunare sull’altro lato, su tutta la superficie dell’attuale parco già realizzato: una città densa edificata in continuità dal centro di Mestre alla laguna sulla linea di gronda. La cosa era stata ripresa da progetti altrettanto coraggiosi del dopoguerra: lettera morta, area abbandonata a sé stessa e lì, buona grazia, e poi è nato il parco.
Ora dall’altra parte ai Pili, questa scommessa può essere riproposta.
E quando si parla di funzioni urbane si può pensare a tutto ciò che è urbano e funzionale alla vita di un territorio più vasto, mettendo in coda per una volta il turismo (che non vuol dire escluderlo).
Ci stava a parer mio il palasport che era stato proposto, essendo una struttura polifunzionale per l’urbano, con quella collocazione molto più polifunzionale del palasport che probabilmente sorgerà a Tessera; e di per sè molto più polifunzionale ( non solo per lo sport, cioè) di uno stadio per il calcio e con un impatto volumetrico adeguato alle altre strutture che ai Pili avrebbero potuto sorgere. Non mi scandalizza nemmeno (se contenuto nei rapporti spaziali con tutto il resto) l’idea del terminal park turistico o per pendolari, molto meglio qui che in Punta San Giuliano, come si sta anche prevedendo. Ma un parcheggio è un intervento che va strutturato, non può essere una lastra d’asfalto con le righe bianche sotto il sol leone o la pioggia battente, perché parcheggi brutali come se ne vedono tanti in giro (per esempio attorno ai centri commerciali) sono tutto meno che una ri-generazione, e ovunque si situano sono al contrario una ri-de-gradazione. Infine, qualsiasi cosa si faccia ai Pili, è d’obbligo una interconnessione con l’altra penisola, quella di Punta San Giuliano. La cucitura sarebbe già di per sé un fatto urbano di grande impatto e altamente ri-generativo.
Bene. Ho compiuto il mio esercizio astratto. Non servirà a nulla, ma quantomeno cerca di immettere spunti di riflessione. E tornando all’area Pili attuale, per come si presenta adesso in quanto oggetto di ri-generazione, si può dimostrare almeno una cosa: la ri-generazione non è un’azione che interessa solo ciò che è edificato o infrastrutturato e poi dismesso, come abitudinalmente si intende, ma interessa anche lo spazio a suolo libero e sempre stato tale, e che in seguito ha subito una de-gradazione naturale, con infestazione e, ben s’intende, inquinamento.
Quanto al suolo libero e aperto da ri-generare varrebbe in generale anche per taluni terreni adibiti all’agricoltura, che erroneamente sono sempre considerati alternativi al consumo di suolo, mentre sono anch’essi, eccome, consumo di suolo. E, se catturati dentro ad aree infrastrutturate e insediate, sono dei pessimi vuoti urbani e territoriali.
Ma questa è un’altra storia.