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28 Novembre 2024La rigenerazione urbana, che meglio si dovrebbe dire, “rigenerazione del territorio”, perché ‘urbana’ e limitativo, trova un campo d’azione particolare, in quelle vaste zone dell’Italia che soffrono dell’abbandono, dello spopolamento marcato e di una sempre maggiore emarginazione socio economica. È una vasta periferia a grande scala, a cui si contrappongono, con un forte contrasto, ben individuate aree fortemente urbanizzate, in modo denso o diffuso a minore densità, le une e le altre intasate di infrastrutture, di residenze abitative e di viabilità, con la netta prevalenza di quella automobilistica; in molti casi conviventi con un’agricoltura meccanizzata a seminativi, che si ritaglia lo spazio a brandelli in mezzo a questo caos non sempre programmato, ma ormai un dato di fatto.
Se ne parla da tempo. E’, questa periferia emarginata, l’Italia dimenticata e svuotata, che ha nei borghi antichi, nei casi estremi azzerati nel popolamento, il simbolo più iconico. Perché i borghi isolati e circoscritti, quanto frequenti e cadenzati nel territorio, erano stati nel passato un presidio riconosciuto e riconoscibile, al centro di una campagna agricola, a lungo attiva e dominante, nello spazio, ma dominante anche nel dettare i tempi e i ritmi più generali della vita della comunità nazionale, nella quale le città storiche erano una minoranza nell’occupazione dello spazio, e in grado di esercitare una polarizzazione verso di loro relativamente circoscritta. Dieci chilometri di raggio al massimo, oasi urbane in un oceano agricolo. Pur con alcune eccezioni macro metropolitane, esistenti da tempo, ma, appunto, eccezioni. E si può dire dunque che nel passato antico e più recente in Italia, ancora per tutto l’800 e la prima metà del ‘900, era la campagna a dominare e a circondare le città, ancora non troppo in rete tra di loro o comunque in una rete a maglie larghe, in cui città e campagna convivevano quantomeno in un certo equilibrio reciproco.
Cosa è accaduto dopo quella metà del ‘900 anche in Italia è ben noto. A partire da quella data, pur con velocità diverse e rivolgimenti vari, è seguita a quella realtà stabilizzata nel tempo, una rapida inversione, cominciata a nord ovest e poi in sequenza in tutta Italia, sud compreso, con fuga dalle campagne e dai centri abitati legati ad esse. Inizialmente verso l’industria e le città industriali, senza arrestarsi quando anche l’industria è declinata o non c’è mai stata, perché il terziario e l’urbano in genere ha trovato altri forti motivi di attrazione, in non pochi casi fosse solo anche una semplice, ma più garantita, sopravvivenza. E il processo è ancora in corso.
Tuttavia, attraverso una progressiva presa di coscienza, nell’ultimo decennio si è assistito a tentativi di contro ribaltamento dell’inerzia di questa grande fuga. Si va da coraggiose storie di vita, spesso di giovani, che lasciano il lavoro nell’urbano per intraprendere nelle vecchie zone abbandonate attività neo rurali o neo artigianali, fino alla messa a nuovo dei più prestigiosi borghi medievali in funzione turistica. In questo caso con ricettività e alberghi diffusi nei vecchi nuclei rigenerati, con circuiti di visita ben promossi e con la riattivazione di alcune attività ‘tipiche’. Il tutto trainato da una piuttosto martellante pubblicità dettata dall’editorialistica del settore e incentrata su titoli riconoscibili e artefatti nello stesso tempo come ‘Bandiere arancioni’ e i ‘Borghi più belli d’Italia’.
E’ sufficiente per parlare di un processo avviato di rigenerazione urbana e territoriale in queste vaste aree marginali?
Direi di no. Può rappresentare (parzialmente) un buon inizio, ma anche nello stesso tempo essere una cortina fumogena che mantiene tutto come prima e peggio di prima. Perché le attività artigianali ed agricole di rientro, pur meritorie ed esemplari, sono a macchia di leopardo, o, se si vuole, gocce in un oceano agricolo in via di crescente abbandono. E perché i borghi patinati, belli a vedersi, alternano la loro vita con fine settimana intasati da un crescente over tourism a settimane feriali nelle quali mantengono inalterata la loro perifericità e il loro essere svuotati di tutto ciò che serve ad una vita civile normale. Con l’aggravante di mascherare la loro condizione e autoconvincersi che non esiste. Senza contare che per un borgo rimesso a nuovo e aperto al turismo di massa ce ne sono dieci, cento, mille che non hanno conosciuto nemmeno questo supposto ‘bene’ e languono in un abbandono reale, vuoti non cinque, ma sette giorni su sette, e per trecentosessantacinque giorni all’anno.
In realtà tutte le analisi sociologiche e geografiche che hanno cercato di capire il fenomeno per porvi rimedio in modo strutturale e non, come ancora adesso, in modo episodico e precario, hanno a mio parere sempre sottovalutato la condizione principale che porta e ha portato allo svuotamento di queste zone. Le cure si rivolgono sempre per prime alle risorse economiche e ai loro processi, sottovalutando il fattore principale generatore della condizione in cui si trovano queste zone.
Ed è l’isolamento cronico e desolante. Un rapporto spazio-tempo del tutto ad esse sfavorevole con il resto del mondo e tra zona e zona sfavorita.
Sembrerebbe ovvio, ma non lo è poi tanto, perché quasi mai si parla dell’isolamento come la causa di gran lunga principale come fattore de-generante, che da ormai ottant’anni spinge ad uscire prepotentemente dai contesti più emarginati, la montagna, la media montagna e anche molta collina italiana e persino certa pianura più estrema e distante. Da ottant’anni? Molto di più, si dirà, perché la grande migrazione dall’Italia contadina, tutta, dalla Lombardia alla Sicilia, è datata almeno da metà del 1800. Vero, ma ben si sa che l’altissima natalità e la tendenza contrastante della crescita della popolazione ha calmierato per molti decenni lo spopolamento, mantenendo a lungo e sufficientemente vitali il mondo agricolo e, in esso, i mille e mille borghi. Quando la natalità che calmierava è prima diminuita e, più recentemente, crollata di colpo a favore della mortalità, parliamo in realtà in progressione negli ultimi cinquant’anni anni, lo spolpamento si è fatto subito feroce e la fuga degli abitanti si è sommata ai vuoti nelle culle che prima li pareggiava. E si è mostrata appunto per quel che è: fuga.
Isolamento causa prima, si diceva. Essere lontani e tagliati fuori non è dunque una condizione assoluta sempre esistita. E’ variata nel tempo, nella percezione e nella stessa realtà misurabile, a seconda di come è cambiato il rapporto spazio tempo, che è da sempre il vero motore della storia, dal mondo arcaico fino alla modernità contemporanea.
Vediamo. Nel passato neppure troppo remoto, è cosa nota, le relazioni spaziali erano oggettivamente meno frequenti o comunque esistevano stabilmente a bassa intensità. Ne seguiva una relativa autarchia di tutte le strutture territoriali, città o campagna che fossero, e ogni contesto insediativo si manteneva in un equilibrio che soffriva relativamente la condizione di essere meno raggiungibile, perché era meno interdipendente del presente e più autonomo in tutto. Va tenuto presente che ogni percezione o realtà fattiva di isolamento deve fare i conti con gli standard spazio temporali complessivi della mobilità delle persone e delle merci. Un tempo lo spostamento tra i borghi e in campagna e tra questi e la città di riferimento, e lo stesso spostamento all’interno delle aree urbane, erano tutto sommato relativamente omogenei nei modi e nei tempi. In definitiva il dorso di mulo o una barca a remi o i calessi erano, si, lenti, ma non era molto più veloce di loro, anche dopo la rivoluzione dei trasporti, un tram di città o quella bicicletta con cui ci si spostava normalmente ancora per tuti gli anni ’50 in moti contesti urbani, quando non sia andava direttamente a piedi un po’ dappertutto e l’automobile era una rarità per pochi, e, anch’essa, più veloce si, ma non esageratamente molto più veloce come lo è adesso, al netto del traffico e delle esasperate lentezze degli ingorghi. Ma ogni qualvolta la mobilità ha conosciuto uno scarto di velocizzazione, con la motorizzazione in primis, ma non solo, l’oggettività o la semplice sensazione dell’isolamento è aumentata di colpo e ha determinato le scelte verso le zone considerate forti e competitive in tutti i sensi. Ogni valutazione del rapporto spazio tempo infatti non è mai assoluta, ma relativa agli standard contemporanei a chi lo valuta (Così come l’arcaicità di un telefono fisso o di una cabina telefonica a gettone non è subentrata quando i telefoni cellulari li possedevano in tre quattro, ma quando hanno cominciato a possederli tutti. E cioè impossibile non adeguarsi agli standard delle tecnologie e delle modalità di comunicazione, pena essere tagliati fuori dagli scambi di relazioni a tutti i livelli).
Non per caso la montagna e la media montagna, Prealpi e Appennini soprattutto, sono quelle che soffrono di più di questa condizione. Dove paradossalmente l’automobile, giunta ovviamente da molto tempo anche lassù, resta oggi l’unico veicolo con il quale puoi sperare di mantenere un contatto con il mondo. Ma non basta, se la struttura della viabilità automobilistica è lassù rimasta arcaica, venendo a mancare il fattore per cui anche l’auto è un vantaggio, si, ma limitato dalle potenzialità di una insufficiente condizione viaria. Ci sono borgate negli Appennini, a 700/800 metri s.l.m., da cui, solo con quaranta/cinquanta minuti di auto, alla velocità di non più di venti chilometri all’ora di media, per strade con salite e discese ripide, tutte a curve strette e insicure, si raggiunge la più vicina, si fa per dire, stazione ferroviaria; spesso questa posta in una linea minore a binario unico, con non più di tre quattro treni al giorno, sovente interrotte da frane e smottamenti, come accade per le stesse strade per le auto, del resto.
La controprova si ha con quelle situazioni apparentemente non urbane di zone agricole interne alle grandi aree urbanizzate, negli hinterlands metropolitani, o anche solo apparentemente più isolate, ma legate e vicine ad assi stradali e ferroviari veloci di cui si può facilmente fruire. Lì non solo non c’è e non c’è stato spopolamento, ma, se occorre si è verificata negli ultimi trenta quarant’ anni una corsa al popolamento in uscita dalle aree urbane dense, mantenendo con la metropoli un legame organico quotidiano, essendoci di fatto ‘dentro’ e acquisendo due vantaggi, percepiti o effettivi che siano: una miglior qualità della vita, prezzi e servizi meno cari e nessun isolamento, due piccioni e una fava. Ma ripeto: non si tratta di vere e proprie zone agricole, sono oasi verdi dentro all’urbe, dove il fattore vincente e il non sentirsi o il non essere isolati. La controprova, si diceva.
Quindi ogni soluzione che riguardi la rivitalizzazione dell’Italia dimenticata e svuotata deve fare primariamente i conti con il problema di abbattere la lontananza spazio-temporale. E ciò lo si può ottenere con quattro processi preliminari a tutto il resto: 1) Infrastrutture viarie, di ogni tipo e non in alternativa tra loro ( et et e non aut aut), più capaci, dirette e velocizzanti. 2) Maggior frequenza ed estensione nelle 24 ore dei mezzi pubblici 3) Il ricostituire una certa autarchia e autosufficienza quantomeno nei servizi di base, che dovrebbero essere tutti (tutti) raggiungibili entro un tempo ragionevole, 15/20 minuti, con un raggio spaziale attorno a loro di una decina, massimo, di chilometri . 4) Le comunità dovrebbero infine risolversi ad accettare la fine delle anacronistiche micro autonomie amministrative, frutto di un campanilismo fuori dalla storia, per unirsi in entità in grado di fare massa critica ed economia di scala soprattutto, appunto, nei servizi. E’ un processo, questo, che sta avvenendo, ma troppo lentamente e con molte resistenze.
Dice: ma tutto ciò costa e tanto, perché si spende a fondo perduto, senza un rientro immediato. Chi paga? E’ inutile avventurarsi nella risposta, perché si aprirebbe un altro capitolo che riguarda la politica. Chiaro che si tratta di un investimento nel tempo lungo, e che nel tempo lungo può avere un possibile rientro, con una vera rivitalizzazione economica, ben altro dalle parvenze attuali o anche da processi più seri, che possono però essere considerati solo come l’inizio e non la fine di un percorso. Senza contare che le unioni amministrative di cui si è detto preludono da subito ad un contenimento dei costi.
Si diceva degli Appennini e delle Prealpi come zone di svuotamento, ma nel nostro Veneto ci sono anche zone di pianura tagliate fuori e censite come aree in via di svuotamento. Nel Delta del Po, per esempio. Non basta, cioè, l’oggettivo vantaggio geografico di stare in pianura, se a questo vantaggio non si unisce l’accessibilità e predomina la lontananza, che a sua volta sfavorisce i servizi. E dal Delta si esce definitivamente anche per questo. Per avere la possibilità garantita di potersi comperare un bottone o curarsi un dente.
E poi ci sono dei casi eclatanti, dei casi limite, che sono assolutamente atipici perché si trovano all’interno di un Comune, quello di Venezia, che, nonostante tutto resta ancora, non si sa fino a quando, il 13° d’Italia per numero di abitanti e tutto sommato limitrofo, se non addirittura in qualche modo interno, quantomeno nella sezione di terraferma, ad una delle aree più dinamiche d’Italia, il mitico Nordest di pianura. All’interno di altre aree urbane teoricamente forti non esiste un caso del genere dove si trovano, incistate, zone lontane, ed emarginate perché lontane. Si potrebbe dire che quel rapporto tra aree deboli e periferiche in via di svuotamento e aree forti e ad alta densità, qui a Venezia si gioca all’interno del comune stesso.
Qui la parola ‘isolamento’ è letterale e non mediata. Infatti isole vere come Burano o Pellestrina, e in misura più contenuta Murano e il Lido e, in definitiva, anche tutto il settore orientale della città storica, intendo il sestiere di Castello, soffrono delle stesse identiche problematiche di un qualsiasi borgo svuotato dell’Appennino. Il calo demografico, dato dal rapporto nati morti, lì in quelle isole si somma alla fuga dei residenti, non tanto e non solo per il caro affitti o l’assenza di affitti (che affligge semmai soprattutto la città storica), ma per il lavoro e i servizi da cercare altrove. In quelle isole o una persona ha un lavoro in loco (Nel turismo o lavori legati in qualche modo alle economie tradizionali, come la pesca e l’itticoltura, che nelle isole sostituivano l’agricoltura, presente significativamente però solo a Sant’Erasmo), oppure prima o poi se ne va ad abitare altrove, perché non può sopportare a lungo di doversi spostare in novanta minuti per fare i dieci chilometri che lo separano dal potenziale luogo di lavoro o dall’acquisto di un abito, o da un medico specialista. Perché questi, signori miei, sono i tempi di spostamento in laguna.
Il coro di lamentele e i gridi di dolore sulla situazione veneziana in genere, mai e poi mai si rivolgono alla madre di tutte le ragioni di crisi: l’isolamento e il ‘fuori scala’ negli spostamenti interni e verso l’esterno. E come mai? Perché i portatori dei lamenti, sognatori di un mondo che non ci può più essere, sono anche quelli poi che non accettano che tutta l’area lagunare sia investita da un piano di mobilità velocizzata, volendo in definitiva la botte piena e la moglie ubriaca. Cioè rivitalizzazione delle isole e della città storica senza alcun processo/compromesso modernizzante che recida la causa, che, se non l’unica, è di gran lunga la principale, del suo male: l’essere lontani e isolati. E che è lo stesso identico male indicato poc’anzi per l’Italia svuotata e dimenticata. Dove d’altra parte non mancano anche lì coloro che la rivorrebbero vitale, ma si stracciano le vesti per un viadotto, stradale o ferroviario, che tagli di netto le cento curve per passare da una vallata all’altra, con il prezzo, inevitabile dell’impatto ambientale.
Ipocriti gli uni e gli altri? No, solo inconsapevoli.
E infatti questo tipo di rigenerazione anti-isolamento potrà avere successo solo con una massiccia opera di informazione, di comunicazione e di alfabetizzazione su come avvengono i processi e su quali sono i vincoli e i prezzi che la geografia spazio temporale impone. Sempre.