
Il mood dei nostri tempi
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9 Aprile 2025Nell’ambito del Festival Incroci di Civiltà (una ormai consolidata e benemerita iniziativa di Cà Foscari) ho assistito all’evento “Le voci libere delle donne afgane”, incontro con l’attivista, scrittrice e regista afgana (e naturalmente esule) Zainab Entezar. La giovane donna presentava il libro “Fuorché il silenzio” (così l’edizione italiana) ovvero una carrellata di 36 interviste con donne afgane interpellate nei mesi successivi all’infausto agosto 2021 in cui i talebani hanno ripreso il potere a Kabul. 36 donne che, tranne una, hanno accettato di comparire con la loro vera identità e che raccontano le loro paure, le angosce, per loro e soprattutto per i loro figli (e figlie..) derivate dall’avvento del regime liberticida dei Talebani.
Va detto che la formula dell’incontro non è stata proprio la più felice. La scelta della traduzione consecutiva, (l’ospite risponde a una domanda nel suo idioma – qui il dari e/o il farsi – e la risposta viene interamente tradotta alla fine) ha molto pesato in negativo perché la traduzione non simultanea (e quindi non frase per frase) della risposta, che a volte è lunga e complessa, si risolve inevitabilmente in una sintesi e quindi si perdono le sfumature, la possibilità dell’interazione rapida, del botta e risposta di chiarimento.. Il risultato è qualcosa di inevitabilmente ingessato e lontano da una vera conversazione. Però qualcosa di originale (e pure sorprendente) ne è emerso.
Per esempio, la risposta alla domanda precisa: “ma perché tanta misoginia da parte dei Talebani?” è stata che le donne sono coloro che danno la vita e quindi controllare le donne significa controllare il futuro. Risposta poetica ma sinceramente poco convincente. Sarebbe stato utile approfondire, come pure indagare su un’altra sorprendente affermazione secondo cui l’islamizzazione estrema e l’occidentalizzazione forzata sono le facce della stessa medaglia. Ma per i limiti tecnici dello scambio descritti sopra, non è stato possibile capirne di più. Altro pensiero più volte ribadito, infine, che le donne afgane non sono vittime (leggasi NON vogliono essere considerate come tali). Zainab ha insistito che le giovani afgane non sono come le loro mamme e nonne, loro reagiscono e si ribellano al loro destino e, ancora, è rimasta inevasa la conseguente ovvia domanda di come possono farlo, nelle terribili condizioni di oggi, le sfortunate (forse si riferiva solo agli esuli?).
Ma il pezzo forte dell’evento è stata la proiezione del breve (circa un’ora) film Shot the voice of freedom, in cui si segue (anche tramite sequenze di una certa inconsapevole valenza cinematografica per il pathos che sprigionano) la lotta di una coraggiosa ragazza, Rashmin, che organizza manifestazioni pubbliche contro la chiusura delle scuole per le donne, raccoglie e incoraggia altre compagne, vive la paura della repressione e condivide i suoi pensieri di angoscia e apprensione per il futuro. Le scene esterne sono girate di nascosto, con camera o telefonino, e ci portano nel cuore della resistenza, sentiamo le urla degli scontri, il sangue delle ragazze ferite, le fughe precipitose quando caricate, le urla e la presenza lugubre dei barbuti nuovi padroni del Paese, nelle loro enormi e minacciose camionette, armati di mitra più grandi di loro.
La visione del film è straziante. Non per la violenza (non ci sono scene particolarmente cruente), non per la sorte della protagonista, che apprendiamo essere riuscita a fuggire e vediamo esule a Parigi manifestare tra la folla, non dunque per effetti particolarmente drammatici. Eppure il film lacera intimamente le coscienze di chi guarda. Per un motivo preciso: perché assistiamo a un film che sappiamo già che finirà male, malissimo. Le sequenze sono girate infatti nei mesi immediatamente successivi la caduta del regime liberale di Ashraf Ghani a seguito dell’abbandono delle truppe USA in adempimento dell’accordo preso con i talebani stessi da Trump (ricorda qualcosa?..) nell’ultimo anno del suo primo mandato. Mesi in cui i nuovi padroni del Paese non avevano ancora stretto la morsa della loro folle discriminazione di genere. Dunque vediamo donne che scendono in piazza solo col capo coperto da un foulard, sono ancora in condizioni di muoversi, di incontrarsi, di farsi vedere. E si ritengono nella possibilità di poter organizzare proteste di piazza, trovano complice rifugio in un negozio, prendono un taxi per mettersi in salvo. Oggi sappiamo come è andata a finire. Sappiamo che le speranze e il coraggio di quelle donne sono stati vani (non a caso Rashmin è esule, come lo è Zainab), sappiamo che la situazione di allora era addirittura paradisiaca rispetto alla realtà attuale. Perché, nel silenzio pressoché assoluto del mondo (e per questo l’iniziativa di Cà Foscari è tanto meritoria), da quell’allora ad oggi in Afghanistan sono state approvate leggi che prevedono, per le donne dopo il compimento degli 8 (otto!) anni:
– la proibizione di andare a scuola
– la proibizione di uscire senza burqa
– la proibizione di uscire di casa senza accompagnatore maschile
– la proibizione di indossare scarpe col tacco alto e qualsiasi calzatura i cui tacchi facciano rumore per non turbare eroticamente gli uomini
– la proibizione di parlare a voce abbastanza alta da essere udite dagli uomini che ne potrebbero essere turbati
– l’obbligo di prevedere per le finestre di casa vetri colorati o zigrinati o coperte da tende affinché gli uomini non le intravedano dall’esterno
– la proibizione di stare alla finestra o in una terrazza
– la proibizione di prendere taxi, di andare in parchi o bagni pubblici
– l’obbligo di utilizzare apposite aree separate nei mezzi pubblici.
Cioè, sono morte viventi, solo schiave, macchine procreatrici, senza diritti, senza voce. E strazia pensare che l’esclusione dall’istruzione, con l’andare del tempo, inevitabilmente perpetuerà questa situazione perché le nuove generazioni di bambine cresceranno, al contrario di quella che ha conosciuto una relativa parità di genere nei vent’anni precedenti il 2021 (e infatti si sono invano cercate di ribellare), nel buio dell’ignoranza, nell’inconsapevolezza dei loro diritti, schiacciate e vessate da una mentalità folle, da un’interpretazione dei precetti dell’Islam assolutamente dissennata. È a tutti gli effetti un crimine contro l’umanità, cui pure è stato dato un nome: Gender Apartheid, benché non ancora riconosciuto come tale dalla legge internazionale (e quando avverrà, perché vogliamo pensare che avverrà, sarà sempre tardi).
Un silenzio e uno strazio senza speranza, come le amare, vagamente foscoliane, considerazioni di Rashmin alla fine del film (ne riproduco il senso): chi lotta per una causa giusta, anche se fallisce, anche da morto, sarà ricordato come un eroe. Noi non avremo nemmeno questa soddisfazione. Morirò esule, lontana dal mio Paese e non avremo alcun riconoscimento nemmeno dopo morte.
Una notazione finale: l’intervista con Zainab Entezar si è celebrata con l’Auditorium di Santa Margherita stracolmo, per la nutrita presenza di studenti delle scuole superiori condotti ad assistervi, che sono apparsi invero assai coinvolti (e bravi, bravissimi gli insegnanti che hanno preso l’iniziativa). Nel breve intervallo tra questa prima parte e la proiezione di Shot the voice of freedom, essendo passate le 13.30 e quindi finito l’orario scolastico, è stato detto che potevano tornare a casa. E molti infatti sono usciti.
Altro che mandarli a casa.. inchiodarli alla poltroncina si sarebbe dovuto..
Immagine di copertina @ Business Doc Europe