Un premierato “equilibrato”: alcune domande al prof. Stefano Ceccanti
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1 Febbraio 2024Se c’è qualcosa che non cessa mai di stupirmi è l’ostinazione di quanti, nel nostro evoluto e democratico Paese, continuano a rincorrere il mito dell’ordine e della sicurezza di “quando c’era lui”. La credenza nei treni puntuali e in una società senza delinquenti e stupratori ha ancora il suo fascino. La qual cosa in sé non è disdicevole né ininfluente. Magari fosse così. È il sogno di tutte le persone oneste e probe. Chi non vorrebbe sentirsi sicuro con uno Stato che faccia un po’ da madre e un po’da padre? Uno Stato, cioè, che contenga e protegga nello stesso tempo? A pensarci bene, sono questi, insieme all’orgoglio della patria, la fede in Dio e l’amore per la famiglia, i messaggi che sono stati usati, con fare martellante ed efficace, dalle destre attuali di governo. E la cosa si può estendere ai regimi autocratici europei che si sono imposti a partire dalla prima metà del secolo scorso e che oggi più che mai riscuotono massicci consensi.
C’è da dire però che a tanta efficacia di messaggio non corrisponde altrettanta complessità di pensiero, tanto che il mito della sicurezza in un regime repressivo, come ce ne sono diversi nel nostro continente – e tanti se ne stanno profilando – ha dei costi elevatissimi in termini di libertà e di democrazia. Ha peraltro un esito inquietante quanto alla diffusione di un approccio razziale e alla propagazione dell’odio. L’equazione è più che mai semplice: se sicurezza ha da esserci, è bene difendersi da chi non è come noi, da chi non assomiglia a chi ci governa, da chi vuole sostituirsi a noi, contaminando la purezza delle nostre radici e alitando sulle nostre teste, ogni giorno che Dio manda in terra, la minaccia dell’estinzione. Ogni mezzo è buono. A la guerre comme a la guerre. Da qui il passaggio a una dura repressione, magari abilmente mascherata, di chi non si allinea al pensiero dominante del principe o della principessa di turno, il salto è breve.
Perché questa lunga premessa? Riflettevo sul caso di Ilaria Salis, detenuta in Ungheria perché accusata di aver aggredito due simpatizzanti neonazisti in una manifestazione non autorizzata (ma tollerata dal governo Orban). L’Ungheria, si sa, è un paese guidato dalla destra sovranista e il suo presidente del consiglio, Victor Orban, è grande amico di Meloni, oltre che affine alleato di coalizione delle frange più reazionarie d’Europa. La donna, detenuta nel penitenziario di Budapest dal febbraio del 2023, ha denunciato condizioni disumane: isolata e impossibilitata a chiamare i genitori fino al mese di ottobre, senza carta igienica, sapone e assorbenti, costretta a indossare abiti sporchi e continuamente assediata da cimici da letto. Legata mani e piedi, viene accompagnata alle udienze con un guinzaglio! Tutto questo perché, ribadisco incredula, è accusata di aggressione contro due neonazisti in una manifestazione ampiamente tollerata dal governo. Talmente tollerata, e sotto sotto forse anche condivisa, che viene ritenuto fuori legge chi vi si oppone appellandosi a principi democratici.
Le condizioni in cui versa Ilaria ci raccontano un sistema giudiziario liberticida. Un sistema attualmente criticato dall’ Unione Europea e da Amnesty International perché non tiene conto della dignità dei detenuti e dei loro più basilari diritti civili. Un sistema che ci ricorda le peggiori dittature ed è a pochi passi da noi. Nella civile Europa. Tutto questo è stato denunciato dal padre della donna, che ha scritto alle massime cariche istituzionali italiane affinché intervengano. Ha scritto a Meloni, a Larussa, a Nordio. Ma nessuno di loro ha risposto a questo padre addolorato e impotente. Un silenzio colpevole e assordante è stata la reazione di chi ci governa. Il silenzio di chi ha la stessa matrice antidemocratica e accentratrice. Il silenzio di chi punisce i propri nemici usando il potere dello Stato (le requisitorie violente alla manifestazione di Atreju ce ne hanno dato l’ennesima conferma). È espressione, tutto ciò, di una concezione autoritaria e personalistica del potere e, date le affinità e il legame di amicizia che intercorre tra Orban e Meloni e tra Meloni e il neofranchista Abascal, dovremmo tutti renderci conto di quanto sia grave il pericolo che corriamo. Compagni di merenda così imbarazzanti sono di certo delle cattive amicizie. Possono però svelare, con la loro stessa presenza, il disegno autocratico di una premier tanto astuta quanto trasformista, convertita, suo malgrado, alla causa euroatlantica, ma pur sempre nostalgica del ventennio più buio della nostra storia. Che resta pur sempre il suo primo amore.