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20 Marzo 2025Carlo Rubini, Direttore Editoriale di questo foglio, mi pone un interrogativo in qualche modo difficile se non imbarazzante: cosa intendo per concetti liberali come, come Mercato, Concorrenza e Merito, stato ridotto all’essenziale ma efficiente e guida dove è necessario.
Difficile perché se è tramontato un modello di società egualitaria, il comunismo sovietico, dopo la caduta del muro di Berlino, quando si è vista una povertà diffusa, si faceva finta di lavorare e lo Stato faceva finta di pagarti, la qualità dei prodotti era scarsissima causa la mancanza della concorrenza, i livelli d’inquinamento elevatissimi. Una Trabant ad esempio inquinava 10 volte una Golf maggiolino vecchio modello, e si rompeva spesso.
L’Occidente invece è caratterizzato, pur in misura diversa da un mercato libero dove la concorrenza dovrebbe costituire stimolo alla ricerca, a fare meglio, a conquistare nuovi mercati, alla fissazione dei prezzi dei prodotti e dei servizi offerti. E il merito alla base delle carriere, sia tecniche che manageriali.
Questa è, almeno, la teoria di Adam Smith, che nella seconda metà del Settecento fu il teorico della nuova economia industriale e sostenitore della tesi che il mercato si autoregolerebbe automaticamente. In realtà non è andata proprio così, tanto è vero che J.M. Keynes nella prima metà del Novecento descrisse i limiti, i difetti del libero mercato, e un ruolo di guida e di indirizzo dello Stato indispensabile ad evitare possibili degenerazioni, come la grande crisi del 1929, ritenendo in particolare che lo Stato avesse l’obbligo di intervenire in caso di crisi, attraverso varie manovre come: sostegno ai redditi bassi, lotta alla disoccupazione, credito alle imprese.
Non vado oltre con le teorie economiche. Non sono un superesperto di macro, ma piuttosto di microeconomia, ossia di azienda, e ho avuto modo di vivere e lavorare in contesti diversi, sia a New York, che a Parigi e a Copenhagen, oltre che in Italia. Solo tra il 1995 e il 1998 mi sono occupato di politica delle liberalizzazioni limitatamente alle telecomunicazioni presiedendo a Parigi Advanced Communications for Europe, istituto creato da France Télécom che si occupava di sviluppo economico attraverso la deregulation delle Tlc e con associati sia i monopolisti di allora che i nuovi entranti.
Partirei da questa esperienza: i paesi che hanno tratto vantaggi immediati dalla deregulation sono quelli che hanno saputo gestire la transizione creando infrastrutture di rete alternative a quelle del monopolista e senza magari avere fretta di vendere la Telecom nazionale. Un esempio: la Svezia. Ha anticipato la deregulation al 1994. Stoccolma aveva cablato in anticipo, con la fibra ottica a banda larga, con una società pubblica partecipata al 90% dal comune e il 10% dalla Provincia, Stokab AB. La coincidenza deregulation/cablaggio ha attirato a Stoccolma 22 aziende telematiche, creando sviluppo, servizi differenziati, occupazione, concorrenza sui prezzi. Barcellona non aveva le risorse per cablare con una società pubblica e ha ottenuto analoghi risultati affidando il cablaggio a un concorrente di Telefónica S.A. Scelte simili, o comunque con network alternativo a quello del monopolista, hanno fatto molte altre città. In Svezia la rete è arrivata presto al circolo polare (800 km a Nord di Stoccolma e cablarono Göteborg e Malmoe. In Europa molte altre città seguirono questi esempi. Tra queste Manchester, Birmingham, Amburgo, Anversa, Leeuwardeen, Bilbao e molte altre. Sono città medie, perché nelle più grandi il cablaggio è stato fatto o almeno iniziato direttamente dagli operatori telefonici, come a Parigi tra la Défense e La Bourse, a Londra l’area della finanza, e così altrove come a Francoforte e a Monaco di Baviera.
Due casi particolari sono quelli di Nizza e Venezia. Nizza, come ho sentito dire a Edward Luttwak che aveva proposto al sindaco Cacciari, sempre a fine anni ’90, di portare a Venezia alcune aziende ICT e Tlc, è una città di albergatori e camerieri, ha visto sorgere poco fuori, ad Ovest, verso Cannes, Sophie Antipolis, nel 1970, per iniziativa di Pierre Laffitte, scienziato e poi Senatore in Francia del Département. des Alpes Maritimes e nel C.d.A. di Advanced Communications for Europe. Sono localizzate lì molte aziende importanti, IBM compresa. È sorto così un polo che costituisce un’alternativa alla monocultura turistica di Nizza.
Quanto a Venezia, ho conosciuto in un convegno a Stoccolma Stefano Bonaga, allora Assessore a Bologna. Aveva trovato due ditte che nel 1996 si erano offerte di cablare gratis un tratto di Bologna e di Venezia. Bonaga ci teneva a Venezia, vista la visibilità nazionale di Massimo Cacciari. Abbiamo ipotizzato il cablaggio di un tratto di Mestre, tra la sede del Comune ed una staccata a fianco di via Piave, passando sotto l’area del vecchio ospedale. Poi il Comune (o un new entrant) avrebbe dovuto completare la rete. Dopo un mese dalla ns. proposta, Cacciari ci chiamò entusiasta, dicendo che aveva affidato il cablaggio a Telecom Italia. È filosofo, forse gli era sfuggito che affidare la rete al monopolista era diverso che scegliere un nuovo entrante. Così si perse un’occasione, piccola o grande che fosse, per creare un qualcosa di alternativo alla monocultura turistica della città[i].
Già da queste esperienze emerge evidente come lo Stato, o comunque l’ente pubblico nel caso delle città, abbia avuto un ruolo nel creare l’infrastruttura, puntando sulla concorrenza come leva per lo sviluppo.
Se tentiamo di allargare lo sguardo ad un orizzonte più generale, conosciamo tutti le diversità delle economie principali europee e nordamericane. In U.S., il credo nella libera iniziativa, nel self made man accompagnata o quasi da una condanna morale verso chi non ha successo, e di conseguenza con scarsissimo welfare e insieme da imposizione fiscale piuttosto bassa. Al contrario dei paesi scandinavi, almeno Danimarca e Svezia che conosco, dove l’economia è di mercato, lo Stato ha avuto un sapiente ruolo di guida, il tutto condito da un sistema di welfare notevole, pur con tagli subiti dopo la globalizzazione, ma con un peso fiscale elevato sulla persona. In Francia l’Etat est l’Etat, è quindi più presente che altrove, anche come azionista di imprese grandi non necessariamente strategiche come Stellantis. I poteri del Ministero delle Finanze sono notevoli e i governi sono da sempre stati molto attenti alla politica industriale. Vediamo infine un mercato più libero, specie dopo la rivoluzione di Margareth Thatcher in U.K., e la c.d. economia sociale di mercato nella Repubblica Federale Tedesca, anche con forme partecipative dei lavoratori alla gestione aziendale.
È quindi difficile teorizzare quanto Stato e quanto Mercato. Io credo che la libertà d’iniziativa e quindi un libero mercato siano caratteristiche di un regime democratico. Il tutto condito da una effettiva mobilità e opportunità di crescita sociale, anche se, fi fatto, è obiettivamente difficile parlare al 100% di pari opportunità. Quindi crescita dell’individuo per merito, attraverso una scuola e università aperte a tutti, direi o gratuite o con un numero di borse e di alloggi studenteschi adeguati, il tutto accompagnato da un sistema di welfare che assicuri una sanità pubblica a tutti, una casa sociale adeguata alla domanda, assistenza ad anziani e disabili. Lo Stato deve garantire un quadro dove tutto questo possa svolgersi. Garantire la concorrenza contro i cartelli e i monopoli, provvedere alle infrastrutture fondamentali, oltre ad assicurare quanto è nella più lontana tradizione storica come politica estera, Giustizia e ordine interno, Difesa, poche leggi ma chiare e fatte rispettare. Il tutto ovviamente in un quadro istituzionale caratterizzato dalla divisione dei poteri e da un sistema di pesi e contrappesi che garantiscano da tentazioni autoritarie.
Se dovessi scegliere un modello, mi sono trovato molto bene a Copenhagen, in Danimarca. Come in Svezia, l’economia è libera in uno Stato che assicura regole e indirizzi essenziali. Certo, il welfare costa: si pagano imposte personali più alte che altrove, ma i servizi sono di elevata qualità, l’università è gratis. Vi sono anche degli abusi, ma l’esclusione sociale è contrastata[ii].
La mia concezione del ruolo dello Stato – o comunque del Pubblico, dalla EU al Comune – nell’economia è essenzialmente quella di garantire un quadro di efficienza, di attrattività per chi fa impresa e investe, anche con un’imposizione fiscale competitiva ma accompagnata da una progressività di quella personale. Questo significa anche fare una politica industriale ed energetica oltre alle infrastrutture fondamentali. E incentivare la R & S, oltre a mantenere alcune industrie strategiche come è stato a suo tempo con la fondazione della CECA. Citerei Tony Blair, anche se caduto d’immagine causa soprattutto la guerra in Iraq, col suo libro Reinventing the Left[iii].
DOMANDA: esiste una ricetta precisa? Direi di no, purché gli obiettivi siano quelli descritti e si agisca con razionalità. La Svezia ad esempio dopo la liberalizzazione delle TLC ha continuato dal 1995 e indipendentemente dall’alternarsi dei governi conservatori o progressisti, con un principio preciso: infrastrutture pubbliche ma servizi privati, a cominciare dal TPL. Ma nel caso del TPL i contratti di lavoro non erano diversi, quindi la concorrenza premiava l’efficienza delle aziende senza creare una corsa al ribasso su salari, stipendi e turni di lavoro. Altrove con i taxi l’avvento di Uber ha eliminato molti privilegi, come la carenza cronica soprattutto nelle grandi città e occasioni cdi evasione fiscale, ma una liberalizzazione a 360° con l’avvento di Uber ha creato p.es. a N.Y. miseria diffusa negli operatori, e dominio di una multinazionale che paga le imposte in Olanda, paese classico per i privilegi fiscali.
Se diamo uno sguardo pur rapido al caso italiano, purtroppo appare che è mancata quasi sempre una politica industriale e delle liberalizzazioni ispirata a criteri razionali, non occasionali.
Il caso italiano
La presenza dello Stato nell’economia è stata notevole. Basti ricordare IRI, ENI, EFIM EGAM, GEPI, SVIMEZ. L’IRI, nato nel 1936 con la riforma Beneduce/Menichella, fu secondo molti una risposta coraggiosa e razionale che stabilizzò l’economia ed iniziò ad operare a guerra finita nel 1946[iv]. L’IRI, per darne l’idea della consistenza, aveva oltre 500 aziende partecipate, comprese le banche più importanti quali, oltre alla Commerciale, i Banchi di Napoli e di Sicilia, Il Monte Paschi di Siena e il San Paolo di Torino. Il secondo, nato nel 1953 con una visione positiva di Enrico Mattei, con l’obiettivo di rompere il monopolio del petrolio detenuto dalle c.d. Sette Sorelle, rendendo più autonoma l’Italia quanto all’approvvigionamento energetico. Gli altri due invece come enti rivolti particolarmente al risanamento di aziende in crisi. Malgrado le osservazioni di Ernesto Rossi[v] che aveva criticato la politica industriale del fascismo con la lapidaria definizione privatizzare i profitti e socializzare le perdite, le vicende di questi enti meriterebbero un approfondimento che non rientra nello spazio di questo articolo. Merito importante dell’IRI è stato l’Autostrada del Sole. Una politica rivolta alle infrastrutture e anche ad un’industria di base che è stata perseguita anche dalla Cassa del Mezzogiorno nel tentativo di attenuare il divario Nord/Sud.
Dopo un primo periodo di più oculata gestione nel dopoguerra, specie fino ad alcuni anni con la presidenza Petrilli terminata nel 1979, la partitocrazia è divenuta sempre più invasiva, la lottizzazione con “Manuale Cencelli” si estese sempre più anche alle aziende pubbliche che assunsero una funzione di salvataggio di situazioni critiche. E conosciamo il caso Alitalia!
Infine, la progressiva adesione dell’Italia allo SME prima e all’Euro poi, impose regole più restrittive sia al ruolo delle aziende pubbliche e soprattutto limiti agli aiuti di stato, considerati un’alterazione della concorrenza. L’aumento continuo del debito pubblico, infine, spinse i governi a partire dagli accordi Andreatta/Van Miert del 1992 ad un maggior rispetto delle regole europee, stabilendo che lo stato non potesse ripianare le perdite delle imprese pubbliche senza rispettare le regole sugli aiuti di stato, dopo tante infrazioni commesse dall’Italia. Questo diede i via alla privatizzazione di molte aziende pubbliche.
In sintesi, è da dire come le privatizzazioni in Italia siano state effettuate in linea di massima senza un criterio, una scelta politica precisa, oltre che sotto la spinta dell’Europa tanto che molti politici si sono giustificati proprio affermando ce lo impone l’Europa, perché il debito pubblico toccava livelli non superabili e con rischio di crisi. E a volte offrendo vantaggi a privati, agli amici degli amici. Si fa presto a fare utili con le autostrade, che sono un monopolio: basta tagliare sulle manutenzioni e godere dell’adeguamento continuo dei pedaggi all’inflazione! Quindi è mancato un indirizzo di politica industriale di ampio respiro[vi].
Questo per limitarci a un giudizio molto condiviso da molti autorevoli economisti. Vi è anche chi ha espresso pareri più pesanti come Nicola Rossi[vii] che parla di un’Italietta priva da decenni ma forse da sempre – con la sola eccezione del ventennio successivo alla seconda guerra mondiale – di autonoma capacità di crescita, …. Tanto quanto quella degli altri Paesi dell’area dell’euro e dell’Unione. E senza saper affrontare le riforme strutturali necessarie ma spesso insufficienti[viii]. Questo in un’Italia in buona misura limitata nelle proprie ambizioni, tendenzialmente restia al cambiamento, spesso avversa al rischio, ostile alla crescita e alle sue conseguenze[ix]
[i] Queste esperienze delle città europee sono documentate in un mio editoriale: Deregulation of Telecommunications: the role of cities and townws. pubblicato a gennaio 1998 da GLOBAL COMMUNICATIONS Int. di Londra.
[ii] Esempio: chi è licenziato, gode dello 90% dello stipendio che percepiva, indipendentemente dal ruolo e dai livelli goduti, a condizione di frequentare corsi di riqualificazione. Ora il beneficio è limitato a tre anni, perché vi erano degli abusi.
[iii] Polity Press, 1994
[iv] Pietro Modiano e Marco Onado, Illusioni perdute, Banche, imprese, classe dirigente in Italia dopo le privatizzazioni, Il Mulino, Saggi, 2023
[v] Ernesto Rossi, I Padroni del vapore, Laterza, 1955
[vi] Modiano/Onado pagg 164,174 e 187
[vii] Nicola Rossi, Un miracolo non fa un santo,
la distruzione creatrice nella società italiana, 1861 – 2021, IBL LIBRI, pag 209
[viii] Idem pag. 212
[ix] Idem pag. 207