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Certo, pur non essendo questa una scoperta, si tratta di un tema cruciale per il futuro dell’Europa ed è necessario interrogarsi su come invertire la tendenza.
Solo da ultimo, secondo i dati riportati da Rita Querzé sul Corriere della Sera dell’11 gennaio 2025, dal 2010 la produttività è aumentata appena dello 0,5% l’anno in Italia, dell’1% in Francia, dell’1,5% in Germania.
Ancora, Piero Cipollone, membro del Comitato esecutivo della Banca Centrale europea, ha evidenziato, in tempi recenti, come il problema della bassa produttività dipenda anche dalla necessità di maggiori investimenti in almeno due settori chiave, tecnologia e finanza anche al fine di ridurre il divario oggi esistente in questi campi con gli Stati Uniti.
Secondo Cipollone, se l’Europa vuole avere un ruolo sullo scenario globale gli interventi in questi come in altri ambiti (penso a infrastrutture e telecomunicazioni) devono essere realizzati non certo in forma individuale ma unendo le forze tra Stati europei.
I campanelli d’allarme stanno da tempo già suonando.
La crescita della produttività di cui sopra dipende da investimenti e creazione di lavoro (vero) che, al contrario continuano a venir meno e, in una prospettiva di breve termine, a venire colpito potrebbe essere l’intero apparato di servizi sociali (scuola, sanità, lavoro, trasporti, sicurezza) di ogni Stato membro inevitabilmente destinato a ridimensionarsi.
A bene vedere si tratterebbe di un vero shock per i cittadini europei (quelli che vengono da Venere secondo la nota definizione di Robert Kagan).
In questa situazione di paralisi oggi più che mai aggravata dalla condizione politica in cui versano i principali Stati fondatori, è necessario trovare lo spazio per discutere ed elaborare alcune riflessioni sulla legislazione economica e sociale europea da intendersi anche quale possibile strumento di risposta alla crisi della produttività.
Nella gestione delle politiche sociali, oggi, come noto, è ancora preponderante il ruolo degli Stati ma davanti all’arretramento degli indici di produttività, se non per europeismo, per utile pragmatismo, questo primato potrebbe essere messo in discussione.
Guardando per esempio alle politiche del lavoro, oggi, in base al Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (articolo 153), l’Unione può solo integrare le iniziative politiche adottate dai singoli Stati membri tramite la definizione di norme minime che devono essere rispettate dagli Stati membri.
A legislazione invariata e al netto di tutte le proposte volte a costruire cooperazioni rafforzate tra Stati membri se non addirittura nuovi Trattati sottoscritti da quegli Stati che invocano più spazio per le politiche unitarie, un ruolo chiave potrebbe essere giocato dai giudici nazionali.
A questo punto lecito è chiedersi come.
Una possibile risposta potrebbe essere la seguente.
Con il fine di far sistematicamente prevalere una concezione euro-unitaria attiva e non apatica dei principi di legislazione sociale già definiti in molte direttive (come ad esempio quelle sull’equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza, sulle condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili, sui salari minimi adeguati nell’Unione europea, sul miglioramento delle condizioni di lavoro nel lavoro mediante piattaforme digitali) e raccomandazioni (sull’accesso alla protezione sociale per i lavoratori subordinati e autonomi mira a colmare i divari nella copertura formale) nonchè bilanciando esigenze di tutela dei valori sociali con le quattro libertà economiche, la loro azione costante e quotidiana potrebbe garantire un’interpretazione orientata al diritto dell’Unione che dia maggiori certezze a lavoratori e imprese a tutto vantaggio della crescita della produttività e della difesa del welfare europeo vero fiore all’occhiello del Vecchio Continente.