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5 Luglio 2022Da qualche anno, in USA, si parla della “Great Resignation”, il fenomeno delle numerose dimissioni volontarie dal lavoro. Anche in Italia osserviamo questo tipo di dimissioni, che hanno avuto dalla metà del 2021 una impennata. Si tratta di dimissioni rilevate, in periodi determinati, sul totale delle cessazioni, e di dimissioni rilevate sul totale degli occupati.
Sono state viste all’inizio come espressione del riassestamento lavorativo dopo la pandemia, ma visto che durano nel tempo, e da tempo, almeno dal 2017, si tratta di un fenomeno più vasto, una riallocazione della forza lavoro. La pandemia, come sappiamo, ha avuto effetti disastrosi su alcuni settori dei servizi, come il commercio e la ristorazione, ed ha avuto effetti positivi su altri settori, come l’assistenza, l’edilizia, anche per le misure fiscali adottate. Dopo il fermo dovuto alla pandemia, c’è stato un esodo dei lavoratori dai servizi verso altri settori come l’edilizia o quello assistenziale .
Quando si parla del lavoro, e soprattutto della difficoltà di trovarlo da parte dei dipendenti, e della difficoltà di trovare dipendenti da parte delle imprese, troppi si affrettano ad attribuire la responsabilità di tali squilibri all’una o all’altra delle parti in causa. Le cronache narrano di rifiuti spesso pretenziosi da parte di candidati, di contratti di lavoro fasulli con paghe minori di quelle pattuite, di paghe insufficienti o non appropriate alla qualifica lavorativa, di lavori in nero, e sono tutti fenomeni accertati e coesistenti. Il dibattito si alimenta di sentenze superficiali e categoriche, ma dovrebbe essere chiaro che il mondo del lavoro presenta sfaccettature infinite, e che i diversi aspetti non costituiscono ognuno una spiegazione unica, un alibi assoluto.
Una frequente caratteristica di questo tipo di dimissioni è l’assenza di alternativa, l’assenza di un nuovo contratto di lavoro di cui usufruire immediatamente.
Queste dimissioni sono in parte indotte dai datori di lavoro? Chi sono quelli che si dimettono, lavoratori del campo manuale o intellettuale? Coloro che cambiano lavoro, riescono agevolmente a trovarne un altro, o si affidano all’aiuto familiare o ai sussidi pubblici?
Tra le richieste degli imprenditori e quelle di chi cerca lavoro esiste un marcato disallineamento: vediamone alcuni aspetti, circoscrivendo l’interesse alle dimissioni volontarie da un lavoro già in essere, nel settore privato.
Queste dimissioni sembrano rappresentare una ricerca di un impiego meglio retribuito e con maggiore flessibilità, a tutto vantaggio dei dipendenti. Sono indicatori di miglioramento delle condizioni lavorative e di un mercato del lavoro dinamico. (Per chi volesse approfondire, si rimanda agli articoli di M. Taddei, LaVoce, 5.11.21; F. Armillei, LaVoce, 25.10.21).
Nel contesto americano, esercitano maggiore attrattiva settori come l’informatica, le comunicazioni, mentre è calato l’interesse nei confronti della ristorazione e del turismo. In Italia, la Great Resignation interessa marcatamente il settore terziario, sia i lavoratori stabili sia i lavoratori a termine, e per lo più le fasce ad alta specializzazione e le fasce a più bassa specializzazione.
La mancanza di candidature nella ricerca di personale e le difficoltà a trovare lavoratori coinciderebbe con le “grandi dimissioni”, che vengono a costituire una parte di questo disallineamento. “…Esiste quindi una certa rilevante coincidenza tra le quantità e i profili del personale che si dimette e quello che le aziende cercano senza trovarlo”, scrive il bollettino “Mercato del Lavoro News” n.130 del 4.6.2022, della Fondazione Anna Kuliscioff. https://www.fondazioneannakuliscioff.it/wp-content/uploads/2022/06/mdl-130.pdf
Un mercato di lavoro in cui cresce la domanda (da parte degli imprenditori) molto più dell’offerta (da parte dei lavoratori), ma che proprio per questo stimola una corsa al ricollocamento per spuntare condizioni migliori. Sembrerebbe quindi, per i lavoratori, un processo positivo.
Ma non emerge una chiave interpretativa chiara: la crescita di mobilità tra i diversi settori di lavoro comprende il passaggio ad un lavoro autonomo ma anche irregolare, la fuga da situazioni di precariato o da ambienti lavorativi deteriorati, l’utilizzo di tecnologia informatica, complice anche l’esperienza dello smart working, la perdita di centralità del lavoro dovuta a diverse scelte di vita.
In Usa è stata coniata l’espressione “yolo economy”, dove yolo è l’acronimo di “you only live once”, traducibile come “si vive una sola volta”: un invito a ripensare la propria vita, anche professionalmente.
Una ricaduta delle dimissioni volontarie riguarda la flessibilità del mercato del lavoro: una flessibilità in questo caso non imposta ai dipendenti – come invece sostenuto da settori tradizionalisti del sindacato e della sinistra – ma in buona parte da loro ricercata. E’ piuttosto ottimista la tendenza a suo tempo prospettata da Pietro Ichino, secondo cui aumenterà da parte del lavoratore la possibilità di selezionare l’impresa presso cui lavorare, accanto alla selezione tradizionale operata dagli imprenditori.
Ma queste caratteristiche di flessibilità, di aumento delle opportunità, sono più rilevabili osservando le dinamiche delle fasce qualificate. Ne deriva una spinta alla concorrenza tra i datori di lavoro, con un aumento dei salari e l’acquisizione di altre condizioni contrattuali. (Vedasi Mercato del Lavoro News, n.130 del 4.6.2022, Fondazione A. Kuliscioff.)
Per le fasce poco qualificate il fenomeno è più problematico, e presenta aspetti negativi: la vasta riserva di manodopera – potenziata anche dall’afflusso dei migranti, un afflusso connaturato all’era della globalizzazione, prezioso per il nostro apparato produttivo, ma in buona parte non controllato e non assistito, e per questo soggetto a frequenti episodi di paraschiavismo – non consente un aumento dei salari, soprattutto in alcuni settori come i servizi o l’agricoltura stagionale, bensì una loro compressione.
Le dimissioni diffuse sembrano dunque ampliare una spaccatura del mercato del lavoro, una sua polarizzazione, che vede vantaggi per i profili della fascia superiore e svantaggi per i profili delle fasce più basse.
In Italia, un fenomeno iniziato prima della pandemia, ed in forte ripresa nel 2021. (Si veda l’articolata indagine “Le dimissioni in Italia tra crisi, ripresa e nuovo approccio al lavoro”, 18.2.2022, su dati 2021, della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro, in www.bollettinoadapt.it )
Resta una domanda che non ha ancora avuto una risposta soddisfacente, se rivolta soprattutto alle fasce più deboli: perché dimissioni da un lavoro che già si possiede? Per cercare paga e condizioni più soddisfacenti, si dirà; per sottrarsi a condizioni di sfruttamento, si dirà; per cercare altri percorsi e dare un altro senso alla propria vita. Ma se le prospettive non sono di miglioramento? Se le condizioni familiari e sociali di tanti individui necessitano di una forma di sostentamento, la scelta razionale sarebbe quella di dimettersi dopo aver trovato un lavoro più soddisfacente, e non prima. A meno che non si cerchino sostegni al reddito, “mai generosi come nell’ultimo biennio, che potrebbero aver contribuito a determinare l’uscita volontaria…”, sta scritto nell’indagine dei Consulenti del Lavoro.
Oltre alla spinta alla flessibilità, c’è un’altra ricaduta. Questo fenomeno delle Grandi Dimissioni contribuisce a rendere obsolete le posizioni oltranziste a difesa dell’ex art. 18 dello Statuto dei Lavoratori. L’art.18 era connaturato alla grande fabbrica, ad un assetto produttivo fordista. E sull’articolo 18 è stata condotta una battaglia dalla fortissima valenza ideologica.
Da tempo si è affermata presso i dipendenti l’importanza del clima aziendale, del fatto se in una data azienda sussista o meno tra proprietà e maestranze un rapporto di fiducia, soprattutto negli ambienti più piccoli. A tal proposito rimando all’articolo Lavoratori fuori classe. Conversazione con il prof Daniele Marini su Luminosi Giorni, nel 2018.
Con il proseguire delle ricerche ne sapremo di più.