COSTUME & MALCOSTUME – Lo spauracchio dell’intelligenza artificiale
3 Luglio 2024La risposta al ragazzo della via Gluck
9 Luglio 2024Nel giugno del 2016 la vittoria del Leave nel referendum sulla Brexit fu il primo segnale dell’avanzata di un nuovo populismo globale che a novembre avrebbe conquistato la Casa Bianca con Donald Trump e a dicembre avrebbe contribuito alla sconfitta del Partito democratico di Matteo Renzi nel referendum costituzionale, ma avrebbe anche alimentato la deriva dell’indipendentismo catalano sfociata nel referendum farlocco del 2017.
Criticare la globalizzazione e il grande trasferimento di ricchezza dall’ovest all’est è legittimo, ma se la ricetta difensiva è il sovranismo alla Lollobrigida, il nazionalismo mentecatto alla Salvini, e l’autoritarismo russo, la corsa verso il precipizio è inesorabile e irreversibile.
Gli inglesi lo sanno, se ne sono accorti, lo hanno vissuto sulla propria pelle, e hanno affidato al Labour rinnovato seriamente da Keir Starmer una maggioranza di dimensioni storiche che è figlia diretta dell’abisso raggiunto otto anni fa con la Brexit e con le sirene populiste suonate principalmente da una destra di apprendisti stregoni, ma anche da una sinistra anticapitalista.
Il partito laburista guidato da Keir Starmer ha stravinto le elezioni in Gran Bretagna grazie al più vecchio e consolidato dei sistemi elettorali europei, l’uninominale secco dove un voto in più determina la vittoria, ma dove la qualità e il rapporto dei candidati nei “piccoli” collegi, in cui è suddivisa la base elettorale, fa la vera differenza.
Due esempi su tutti: Farage prende il 14% ma elegge solo 5 deputati.
Il Partito Liberale prende il 13% ma ne elegge 71 grazie a ad alcuni accordi di desistenza con i Laburisti in varie circoscrizioni, e alla visibilità guadagnata in campagna elettorale dal suo leader Ed Davey.
Al punto in cui siamo, possiamo solo augurarci che la disfatta dei conservatori in Gran Bretagna, dove tutto è cominciato, segni l’inizio di una inversione di tendenza globale. E i risultati del secondo turno delle elezioni francesi vanno in questa direzione, poi bisognerà aspettare le presidenziali americane di novembre.
Nel frattempo, per portarci avanti, forse non ci farebbe male provare a trarre qualche lezione dalla lunga traversata della sinistra britannica, e soprattutto dall’esito disastroso dei suoi precedenti tentativi di pacificazione con il populismo della Brexit.
Il nuovo premier, Keir Starmer, vince innanzitutto per demeriti altrui. L’unico, vero merito dei laburisti è stato darsi una leadership centrista e riformista. Sino a cacciare dal partito il velleitario Jeremy Corbyn, che contro Johnson li aveva portati a una sconfitta storica: nel 2019 il Labour aveva perso collegi che vinceva dai tempi della Grande Guerra.
Il risultato di giovedì non è isolato, anzi conferma una legge non scritta. Nelle democrazie occidentali, mai, dicesi mai, la sinistra ha vinto le elezioni su una linea radicale. A Londra, i pansindacalisti Foot e Kinnock hanno preso nasate, finché non è arrivato Tony Blair.
A Washington i democratici sono andati alla Casa Bianca con due centristi, Clinton e Biden, e lo stesso Obama esprimeva una radicalità più nella sua storia personale che nella sua politica economica, in continuità con quella espansiva di Bush dopo la crisi del debito.
In Germania i socialdemocratici non hanno vinto con Lafontaine, ma con Schröder, il cui slogan era «Die neue Mitte», e con Scholz, che si è presentato come l’erede della Merkel.
Starmer ha mostrato il volto di una sinistra riformista, non demagogica, poco incline al populismo e alla retorica. Per questo ha vinto. Ma chi sia abituato a leggere i risultati elettorali non può non registrare che il dato forte delle consultazioni inglesi è il tracollo dei conservatori, più ancora del successo laburista che, in termini di voti, supera solo del due per cento quello delle elezioni precedenti. Il declino degli avversari ha fatto sì, vigente un sistema uninominale secco, che un partito del 34 per cento abbia il 65% dei seggi. Qualcosa che, ad esempio in Italia, determinerebbe numerosi mal di pancia.
Per contro, in Francia, una formazione politica del 34 per cento dei voti può restare fuori dal governo perché, al secondo turno, tutte le altre forze convergono per evitare che quel partito, per la sua storia cruenta, possa sedere a Matignon.
La sinistra può scegliere di contrapporne una analoga, fondata sulla rincorsa al populismo e alla riduzione dei programmi a uno solo: impedire che vincano gli altri.
Ma in quel caso, anche riuscendo, come è avvenuto, sarà difficile, in assenza di una comune visione sulle scelte da compiere, assicurare governabilità e cambiamento. Oppure può fare leva sul riformismo, sul suo fascino realistico e radicale al tempo stesso.
Che sembra poter essere l’orientamento che emerge nelle primissime reazioni dopo il voto, perché anche se il Fronte Popolare guidato da Mélenchon conquista 182 seggi, al suo interno la sua componente intransigente, più populista, più demagogica mette assieme 78 di questi seggi, mentre Glucksmann, con il suo raggruppamento socialista ne assomma 69 e i Verdi 28; e questi si sono già espressi per trovare una soluzione ad un governo di coalizione che non potrà prescindere da Macron e il suo Renaissance, come velleitariamente vorrebbe invece Mélenchon.
Macron che con il suo “azzardo” politico ha determinato la vittoria del Fronte Repubblicano e la sconfitta netta dell’estrema destra lepenista, uscendo ancora una volta come un campione di coraggio politico; se pensiamo a tutte le accuse di avventurismo che gli sono state rivolte in Patria e anche altrove c’è da rabbrividire rispetto alla pochezza dei più.
Parigi per sua fortuna non è Roma che cade sempre ai piedi del primo scalmanato che passa, il quale si prende la ola di applausi di una classe dirigente che si informa su Dagospia e si sfama alla greppia dello Stato (cit.).
«Il Fronte Popolare non è un altro modo per dire il campo largo (qualsiasi cosa significhi), ma esattamente l’opposto. Sono due opzioni alternative, per scopo, costruzione, profilo». Il profilo di una coalizione di Centro-Sinistra deve essere di governo, come ha detto Paolo Gentiloni al Corriere della Sera.
Più chiaramente, la desistenza è un’arma di difesa, governare è un’altra cosa: invece Elly Schlein, Zingaretti, Andrea Orlando pensano che sia la stessa, cioè si vorrebbe governare con Rifondazione comunista e compagnia.
Ecco dunque che arriviamo a parlare della vicenda italiana, del bivio dinanzi al quale si trovano i macroniani di casa nostra, cioè la carcassa dell’ex Terzo polo al quale non è riuscito ciò che riuscì a Macron: prendere il meglio dalla tradizionale destra e dalla tradizionale sinistra per far lievitare un quel grande partito riformista di governo. L’esperimento è stato generoso, ma è fallito. Questo hanno capito gli italiani e poi i francesi. Lo riconoscono Luigi Marattin ed Enrico Costa che propongono di ricominciare con un progetto nuovo. Ma per guardare a sinistra o per insistere nell’autosufficienza?
Lo spiega bene Matteo Renzi quando dice che o si fa una Margherita 2.0 che guarda a sinistra o si fa il Terzo Polo autonomo.
Ma non è una alternativa reale perché come abbiamo visto un Terzo Polo equidistante tra gli altri due è fallito e non solo per i litigi, ma anche perché l’atteggiamento dell’elettorato privilegia la scelta di campo: così è stato anche con un sistema proporzionale come quello delle Europee.
Italia viva e Azione sono dunque chiamati a una scelta di fondo, mettendo in conto mal di pancia e dissensi.
Quella scelta che sin qui si sono rifiutati di fare con i risultati che sappiamo.
Dopo questo storico ed emozionante stop alla destra estrema in Francia e la fantastica vittoria laburista in Gran Bretagna, il sovranismo europeo ha perso la partita. Per avere una prospettiva di lungo respiro bisogna però saper costruire una proposta largamente condivisa di fronte ad uno schieramento di destra che si traveste da moderato.
Così chissà che anche l’ambiguità della Meloni non venga una volta per tutte resa palese agli occhi della maggioranza del Paese, perché gli occhi dell’establishment e della stampa sono invece miopi e non distinguono più Giorgia ante elezioni 2022 dalla Meloni Capo di Governo.
Non è che ti ricostruisci una verginità politica e un bouquet di valori solo cambiando la giacchetta: e questo in Europa invece lo sanno bene e non a caso la PdC Italiana è ai margini dei tavoli di Bruxelles nei quali si decidono gli assetti che contano.
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