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16 Giugno 2024«Di’ qualcosa di sinistra!» gridava Nanni Moretti, rivolgendosi a Massimo D’Alema che, in un confronto televisivo con Berlusconi, Bossi e Fini, soccombeva alla sua dialettica sofisticata e distante dai problemi della gente. Era il film “Aprile” del 1998, e il regista ci aveva visto bene, individuando in quel linguaggio criptico la principale causa di quello che sarebbe stato il declino inarrestabile della sinistra. Il suo esiziale allontanamento dalla gente. Era il 1998 e l’Italia aveva assistito, quattro anni prima, alla prima schiacciante vittoria di Berlusconi, seguita dalla rivincita di Prodi del 1996. Una rivincita azzoppata, però, perché supportata da forze distanti le une dalle altre e da un equilibrio che si rivelava quanto mai precario.
L’appello a D’Alema, nella rappresentazione cinematografica, voleva essere ironico e ci fece ridere tutti, perché ne comprendevamo la verità grottesca. Presto si rivelò tragico perché continuò ad essere inascoltato da una nomenclatura sempre più impastoiata su questioni burocratiche e sempre più autoreferenziale. Sempre più incapace di raggiungere il cuore e l’anima delle persone, sempre più timida, nella sua pretesa di essere moderata e sempre più distante dalla propria storia. La sinistra, dilaniata dai sensi di colpa afferenti al proprio passato, preoccupata di riscattarsi dall’ipoteca del comunismo, perdeva progressivamente la spinta vitale con la quale aveva conquistato il popolo, per diventare ostaggio di personalità antitetiche capaci di annullarsi a vicenda. A un Gramsci che urlava «vogliamo il salario, vogliamo l’orario di lavoro, viva il grande sciopero», si contrapponeva un Veltroni che più timidamente auspicava una riforma della sinistra e un’apertura a “fenomeni civici sempre più interessanti”. Detto in soldoni, una fusione a freddo tra forze distanti per cultura, tradizioni e spinte ideali, ma accomunate dall’antiberlusconismo e dall’inseguimento a una destra sempre più padrona della comunicazione con la gente. Da lì un crescendo di insuccessi, intervallati da tanto fulgidi quanto illusori momenti di gloria, che dovevano il loro fulgore a delle sintesi innaturali di quello che era il patrimonio valoriale ormai indebolito della sinistra con istanze riformiste che avrebbero di sicuro allargato i consensi. Almeno nell’immediato. E così fu. Ma con un prezzo altissimo che spinse il Partito Democratico (e la sinistra tutta) a un triste declino.
Le elezioni del 2022 hanno registrato dei minimi storici in termini di consenso, accompagnati da una distanza incolmabile tra il Gotha del partito e il suo elettorato. Un elettorato che, ancorché deluso, ha lanciato il suo ultimo appello, invocando il cambiamento incarnato in Elly Schlein.
La crescita del partito democratico in queste ultime elezioni ha senz’altro restituito una speranza, ma non ha stupito più di tanto. Era prevedibile. In occasione di quelle primarie che hanno disorientato i capi di partito e disarcionato il favorito Bonaccini, non pochi elettori hanno dichiarato di essere ritornati al Pd, dopo anni di astensione. La Schlein li aveva convinti e, a seconda di quello che la neo segretaria avesse fatto di lì alle europee di giugno, sarebbero stati pronti a consegnarle il proprio futuro in alternativa alla destra. Una rimonta annunciata, insomma.
La segretaria del PD ha smosso dal torpore un numero ragguardevole di elettori, che hanno premiato una campagna incentrata sui temi sociali di salute, educazione e salario e sui temi della legalità; hanno premiato la sua capacità di mediazione tra oppositori; hanno premiato il garbato rifiuto di accettare le provocazioni del presidente del consiglio; hanno premiato la volontà di fare propria la lezione del passato e di sgombrare il proprio agire da ambiguità che la proiettassero nella galassia dello ZTL; hanno premiato il suo essere di sinistra e il suo dire finalmente cose di sinistra.
È una lezione per chi, anche nel partito, aspettava la sua disfatta. Ora, tutti quei detrattori che faticano ancora a sotterrare la propria ascia di guerra, dovrebbero chiederle scusa e sostenerla nella difficile impresa dell’alternativa (l’unica possibile) a una destra che, come sappiamo, esce irrobustita dalle urne e si nutre del proprio populismo e di una propaganda da MinCulPop. Se adesso il Pd si sente legittimato a gestire il tavolo delle alleanze, lo deve alla tenacia e alle capacità di questa giovane segretaria che, malgrado abbia dovuto fare i conti con liste fatte con il bilancino delle correnti, è uscita vittoriosa dal suo primo importante appuntamento elettorale. Non c’è da illudersi: la strada è in salita, ma l’elettorato di sinistra, anche quello più centrista, non merita il terzo ventennio. Lunga vita a Schlein, dunque, e buon lavoro alla segretaria!