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4 Giugno 2025È verosimile che la nascita della lingua umana (delle lingue ancestrali) si perda nella notte dei tempi e risalga al momento in cui, magari in varie parti del pianeta, qualche nostro antichissimo progenitore, un homo sapiens, abbandonò i primordiali e approssimativi versi gutturali dei suoi simili e prese a pronunciare suoni articolati e distinti per indicare le cose, per comunicare in modo più preciso i singoli pensieri, i sentimenti e le emozioni attraverso delle parole.
Chissà quali e quante furono le parlate che ne nacquero. Quello che è certo è che solo moltissimo tempo dopo, quando si furono formati dei veri e propri idiomi, qualcuno pensò che fosse giunto il momento di lasciare traccia duratura di certe parole, di certe informazioni e di certi pensieri. Ciò cominciò ad accadere – solo presso alcuni popoli – in un’epoca relativamente recentissima (una manciata di migliaia di anni fa) e fu certo così che fecero la loro comparsa le prime forme di scrittura. Nella nostra penisola questo accadde solo intorno all’800 a.C.
Soltanto assai tempo dopo l’invenzione della scrittura, a più d’uno venne in mente di cercare di esaminare la propria lingua, di trovare i meccanismi che la governavano, d’individuare delle costanti e delle norme, insomma di rintracciare nella lingua una logica e delle “regole”, cioè di scrivere una grammatica.
Se questo è vero, si capisce bene come in un primo tempo siano nate e si siano sviluppate le parlate e solo molto tempo dopo siano comparse le prime forme di scrittura. Ma solo assai più tardi fecero la loro comparsa le cosiddette grammatiche. Le grammatiche dunque non dèttano regole inappellabili: semplicemente si sforzano di spiegare e descrivere come, in un certo tempo e in un certo luogo, una lingua di fatto funzioni, e stabiliscono delle “norme”, cioè delle costanti (ma anche le relative eccezioni) sulla base dell’uso dei parlanti e degli scriventi. Sono queste le regole della grammatica.
Con due difficoltà, però. La prima è che le lingue continuamente mutano e si trasformano: le grammatiche dunque (come del resto i dizionari) devono stare al passo di questo perenne cambiamento e prendere atto dei mutamenti. A un certo punto, determinati scarti dalla norma, quelli che erano stati considerati in precedenza degli errori, si diffondono e si affermano e prevalgono nell’uso: diventano delle varianti accettabili della lingua o addirittura le versioni preferibili e preferite dai parlanti ed accettate dagli esperti di lingua.
Fino a non moltissimo tempo fa, nella lingua italiana, il pronome “gli” nel significato di “a loro” (anziché di “a lui”) era considerato dai maestri di scuola un errore da segnare con la penna blu. Da diverso tempo non è più così. Oppure: i nostri insegnanti ci vietavano di andare a capo con l’apostrofo e, ove necessario, bisognava dividere le due parole come segue: “dell’amico” diventava, in fin di riga “dello (accapo) amico”. Da quando esistono i giornali e i testi scritti su colonne, non è più così. Oggi poi che esiste la videoscrittura il problema non si pone nemmeno. E di esempi di questo genere se ne potrebbero fare a bizzeffe. In fatto di lingue, dunque, alla lunga è l’uso, e non la grammatica, che la vince.
La seconda difficoltà è che ciascuna lingua non è stata progettata a tavolino, in modo organico, coerente e razionale in un’unica volta. Essa è viceversa il frutto di uno sviluppo molto articolato, complicato, contorto, fatto a volte di cambiamenti anche casuali, nonché d’intrecci e d’influenze reciproche con svariate altre lingue.
Ed è per questo che le grammatiche registrano, accanto alle severe “regole”, tante altre specificità, particolarità, stranezze e anche delle vere e proprie contraddizioni: sono, insomma, le famigerate eccezioni. Di fatto le lingue sono fatalmente piene d’incongruenze e d’incoerenze: così in italiano abbiamo la inutile lettera Q che a volte indica il suono “cu”, dove si potrebbe scrivere sempre -cu-; e invece scriviamo quarto, questo, quota… per non parlare di acqua, di taccuino e di soqquadro.
Abbiamo certe lettere che sono molli o dolci con determinate vocali (cena, gente, cima, giro) e che suonano viceversa dure o aspre con altre vocali (cane, gatto, coro, gola, cupo, gufo ecc.). In pratica sono due suoni diversi. Abbiamo consonanti quasi sempre inutili, come la h che (tranne che in china, cherosene, ghermire, ghiro e simili), non suona affatto, cioè non la si pronuncia (infatti è detta “muta”) e la si potrebbe omettere senza che cambi il suono della parola, come nel caso di ho, hai, ha… ahimé, oh, eh che si pronuncerebbero esattamente allo stesso modo se fossero scritte cosi: o, ai, a, aimé, o, e…
E, a proposito di stranezze e incongruenze, che dire poi dei suoni della lingua che non hanno un loro corrispondente grafema (una lettera)? Aglio, figlio, moglie ecc. dovrebbero pronunciarsi come glicine e glicerina, cioè G-L: ag-lio, fig-lio, mog-lie. Così come gnomo, lasagna e gnu dovrebbero leggersi g-nomo, lasag-na, g-nu, e solo convenzionalmente il gruppo “gli” e il gruppo “gn” rappresentano due suoni che non hanno nella lingua una corrispondente lettera o grafema. Lo stesso dicasi per scivolo e scemo, che, a rigor di fonetica, andrebbero pronunciate s-civolo e s-cemo. Così scervellato (senza cervello) dovrebbe e potrebbe essere pronunciato s-cervellato, ma ormai è prevalsa la variante col suono -SC-: scervellato.
E ancora: non sarebbe forse più semplice scrivere ka ke ki ko ku, anziché ca, che, chi, co, cu? Lo sanno bene i bambini che imparano a fatica queste ed altre stranezze. Ma le lingue (tutte le lingue) hanno un’identità e una fisionomia che non dipende solo dalla logica e dal buon senso. Dipende anche moltissimo dalla loro complicata storia.
Si potrebbe continuare a lungo con gli esempi delle illogicità della nostra lingua (come di tutte le lingue), ma tutto questo serve solo per dire che le grammatiche (e, a monte, le lingue che esse descrivono) sono assai spesso molto più contraddittorie ed arbitrarie di quanto non si creda, e ci s’inganna quando si attribuisce loro (alle grammatiche) un valore sacrale e inappellabile che esse non hanno.
Il che non significa affatto, beninteso (se sono stato chiaro sin qui) che si possa scrivere o parlare come accidenti si vuole. Né significa che le cosiddette regole grammaticali non contino e non significhino nulla. Tutt’altro. Ma questa è un’altra storia.



