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28 Ottobre 2024Abbiamo troppa roba in casa, si sa, lo sappiamo tutti. Spesso si tratta solo di “fuffa”, di ciarpame. Compriamo, compriamo, compriamo e poi buttiamo via anche tante cose. E la montagna dei rifiuti planetari ingigantisce, si sa. È il consumismo, bellezza.
Ma forse non eliminiamo mai abbastanza cose rispetto a ciò che incameriamo nelle nostre abitazioni. Il deflusso non compensa il flusso in ingresso. E piano piano le nostre case si riempiono a dismisura. Questo è quanto mi capitò di constatare quando i miei genitori se ne andarono. C’era da svuotare la casa avìta per poterla vendere. Ma per quanto i miei genitori fossero stati delle persone piuttosto ordinate, non la si finiva più di svuotare, di tirar fuori roba di cui disfarsi. Mi parve allora un’impresa titanica.
Analogamente, succede che si parta per le ferie estive portandosi appresso un sacco di roba all’insegna del “non si sa mai”. Manco ci si dovesse recare in una sperduta e desertica landa della Patagonia. Invece andiamo magari a Gabicce, a Finale Ligure, o al limite a Canicattì. Riempiamo le valigie all’inverosimile. Carichiamo l’auto sotto vuoto spinto. Le donne ne sanno qualcosa. Se partissimo con un T.I.R., riempiremmo anche quello all’inverosimile. O no? Capita a molti.
Poi si scopre che di tutto quello che ci portiamo appresso, solo una minima parte viene effettivamente usata. E ci vien fatto di pensare che in fondo ci comportiamo allo stesso modo anche a casa nostra. I nostri guardaroba quasi traboccano di capi d’abbigliamento che non indossiamo mai (e che magari abbiamo comprato spensieratamente a prezzi inverosimilmente bassi, prodotti come sono dai poveracci sfruttati che lavorano nel quarto mondo). I nostri armadi sono pieni di abiti che non indossiamo più da tempo immemore, che non abbiamo mai indossato, che non indosseremo mai, acquistati d’impulso per capriccio irriflesso (ed è sempre il consumismo, bellezza!).
Non è forse così? Non è forse vero che finiamo per indossare sempre i soliti quattro vestiti, ai quali, per motivi imperscrutabili, siamo affezionati anche se sono brutti e logori, e gli altri abiti restano lì, all’insegna solita del “non si sa mai, magari quando dimagrisco, magari quando ingrasso”.
Ci circondiamo di roba inutile. E la faccenda, sia chiaro, non riguarda solo gli abiti, bensì un po’ tutto ciò che abbiamo nelle nostre case. Questo lo metto via, lo conservo. Un domani potrebbe servirmi. Poi quando quella tale cosa mi serve, non mi ricordo manco più dove sta. E finisce che la ricompro. Oppure – peggio mi sento – non mi ricordo nemmeno di averla, di averla già comprata chissà quando. Oppure l’ho conservata mezza rotta, ripromettendoti di riparala, prima o poi. Prima o poi…
Senonché, consumismo a parte, la faccenda dell’accumulo domestico è una storia vecchia, più vecchia del consumismo. Anche se, si sa, i nostri genitori e i nostri nonni conservavano perché davvero le cose poi potevano servire e di fatto servivano, venivano recuperate, riciclate; ma soprattutto perché erano destinate a durare: duravano effettivamente e non avevano una breve vita come accade invece da quando l’industria occidentale si è inventata, all’inizio del secolo scorso, per sopravvivere e avere sempre mercati in grado di assorbire nuove merci, la cosiddetta “obsolescenza programmata”: dalla lampadina al telefonino, tutti i prodotti hanno inscritta ormai fin dalla loro nascita la loro scadenza tassativa, una morte a tempo determinato.
Ma gli esperti che studiano queste cose ci spiegano che l’accumulo di roba inutile è una malattia (malattia quando si esagera) propria dell’animale culturale: dell’uomo. E della donna, va da sé. Vi risulta che le bestie conservino le cose che non gli servono più? Tale tendenza (che spesso è una perversione) ha sovente soprattutto un valore simbolico, che nulla ha a che fare con l’utilità pratica degli oggetti.
Il significato generale di questa tendenza a conservare ogni cosa sta sotto l’ombrello della identità: ci attacchiamo agli oggetti e pensiamo con essi di sapere meglio chi siamo e come siamo fatti. Ancoriamo agli oggetti materiali il nostro stesso riconoscimento di noi medesimi. Senza di essi, senza cioè specialmente le cose che ci sono care, temiamo di perderci. E questa non è una colpa, sia chiaro. È certamente una specificità di quegli animali culturali che noi siamo, appunto. Ma est modus in rebus, c’è una misura in tutte le cose. Quando si esagera nella conservazione di roba inutile, inutilizzata, magari scassata ecc., allora si passa nella patologia che tutti ci prende, chi più chi meno.
Tenersi stretti a tante cose materiali può avere vari significati. A volte indica la paura del cambiamento. Altre volte il timore di dimenticare (fatti e persone) o addirittura di essere dimenticati. Ma può anche simboleggiare il timore della mancanza, se non della penuria o financo della miseria.
Ma l’ancoraggio mentale a un cumulo di roba e robaccia magari inservibile è anche sintomo di confusione mentale, di mancanza di concentrazione, d’incertezza riguardo ai nostri obiettivi e ai nostri desideri (questo me lo tengo, non sono sicuro di non volerlo più). Oppure è l’emblema di delusioni, di promesse mancate (anche a noi stessi), di sogni infranti…
L’accumulo spesso si associa al disordine, si sa. Il consiglio che possiamo darci (e chi di noi è senza “peccato” scagli la prima pietra) è di far pulizia nella nostra casa, nei nostri armadi, nei nostri cassetti, nella nostra testa e nella nostra vita. Questa “decongestione” alla fine si tradurrà in un gran sollievo, spirituale, oltre che materiale. Ci aiuterà a sentirci più leggeri e più liberi, ci darà una bella mano a distinguere le cose importanti ed essenziali (a partire dagli affetti, s’intende) dalle zavorre inutili e transeunti. Ci permetterà di non vivere troppo nel passato e un po’ di più nel presente e, magari, nel futuro.
Ma, beninteso, non conviene che tale processo di liberazione sia drastico, immediato, totale e… francescano. Il trauma potrebbe essere eccessivo e il rimedio peggiore del male. Però, un po’ alla volta, facciamoci coraggio: liberiamoci delle cose inutili, “ingombranti”, soffocanti. Senza per questo rinunciare in toto, beninteso, al passato e ai ricordi. Perché la vita che abbiamo è anche esattamente quella che abbiamo avuto e vissuto, e ciascuno di noi è anche ciò che è stato, ciò che ha fatto, le persone che gli sono care e quelle in cui si è semplicemente imbattuto strada facendo. Se perdessimo completamente tutto questo, perderemmo anche noi stessi e quello che siamo, cioè – ripetiamolo – degli animali culturali.