BUFERA SULLA CITTA’: C’E’ MODO E MODO (DI REAGIRE)
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6 Agosto 2024Ma che accidenti, dirà il lettore di fronte ad un titolo del genere. E con ragione, aggiungiamo noi. Ma ci arriviamo subito.
Qualche tempo fa ci siamo occupati, proprio qui, di quella che abbiamo chiamato “La maledizione degli acronimi”, ossia la pandemica tendenza, tutta moderna (ma che di moderno non ha proprio niente) ad abusare delle sigle, usandole al posto delle parole-parole, delle parole vere e proprie. Della tendenza, cioè, a parlare e a scrivere a furia di acronimi, spesso tanto inutili quanto incomprensibili alla maggior parte delle persone. Abbiamo di proposito, in quella occasione, tralasciato la regina delle sigle, il principe degli acronimi, o cioè appunto lo… (non so se parola maschile o femminile) LGBTQI+.
Ma che accidenti vuole mai dire questa sequenza di lettere (oltretutto pressoché impronunciabile) – si chiederà il lettore. Se lo chiederà, almeno, quello ignorante come me (e forse sono tanti) che fino a poco tempo fa non avevo la più pallida idea del suo significato (così come ignoro il significato di tante altre sigle che pullulano nei discorsi odierni).
Ora, bisognerebbe a proposito di questa ed altre consimili “parolacce” (mi riferisco all’aspetto linguistico, non a quello contenutistico) – bisognerebbe, dicevo, fare un cenno alla cosiddetta semantica dell’eufemismo, cioè alle parole introdotte a mano a mano nella lingua, in sostituzione di altre percepite come “sporche” o imbarazzanti; oppure come troppo banali o pedestri o troppo comuni.
Ma prima soddisfacciamo la sacrosanta curiosità del lettore. Dunque, l’impronunciabile acronimo di cui sopra varrebbe quanto segue: L (lesbiche), G (gay), B (bisessuali, attratti cioè sessualmente sia dai maschi che dalle femmine), T (transgender, cioè coloro che s’identificano con un sesso diverso da quello anatomico della nascita; o magari un po’ con quello maschile e un po’ con quello femminile), Q (cioè “queer” o “questioning”, ossia “in dubbio”: persone che non sono ancora sicure del proprio orientamento sessuale o della propria identità di genere), I (intersessuali, cioè persone – se non capiamo male – con caratteristiche fisiche diverse da quelle assegnate tradizionalmente al proprio genere, caratteristiche magari un po’ maschili e un po’ femminili; ma può essere che esse siano, ciò nondimeno, del tutto eterosessuali – fate un po’ vobis).
Insomma, la sigla misteriosa verrebbe a comprendere e a riferirsi a tutti coloro che si discostano e si differenziano dalla norma dell’identità sessuale – se ci è consentito di usare questo termine (norma), senza voler con ciò esprimere alcun giudizio di valore o recare offesa a chicchessia. Perché la parola “norma” in italiano significa semplicemente “ciò che si verifica per lo più”.
Ecco, la faccenda sarebbe finita qui. La sigla, voglio dire, sarebbe finita qui. Ma siccome non si sa mai, qualche anima pia ha pensato bene di aggiungere alle lettere il segno “+” (“LGBTQI+”) e ciò allo scopo di evitare l’aggiunta di altre lettere (cosa che avrebbe sfiorato il grottesco), come ad esempio la lettera A (che varrebbe “asessuale”, cioè chi non prova nessuna attrazione per alcun genere) e la P, che starebbe per “pansessuale”. Il quale ultimo termine, si badi, non equivale – dicunt – a “bisessuale” (cioè attratto sia da maschi che da femmine). Macché. Come suggerisce il prefisso “pan-”, significherebbe attratto dalla qualunque, ivi comprese, forse, capre e galline (non si sa se consenzienti o meno alle relative avances…).
Ora, ci si perdonerà questo po’ d’ironia, così poco politically correct (ce ne rendiamo conto), ma un tantino d’impazienza, ne converrete, ci scappa. Perché a leggere la pur sommaria spiegazione che precede, un certo mal di testa viene, diciamocelo. Però la domanda vera è un’altra: ma ce n’era bisogno? C’era veramente bisogno d’introdurre nella lingua una simile pseudo-parola? C’era bisogno di creare (e perfezionare poi nel tempo, per addizione di lettere successive) una cotanta sequenza di lettere? La quale ultima, dunque, pare che voglia dire un sacco di cose, una vera caterva. Forse troppe cose. Essa è praticamente l’equivalente di un articolato (e alquanto controverso) discorso. Ma sembra a voi plausibile trasformare i discorsi in sigle? Usare sigle al posto delle spiegazioni e dei discorsi? Non è meglio parlare e spiegarsi?
A onor del vero, merita fare un cenno alla storia di questo acronimo. Dunque, la criptica “parolaccia” LGBT pare nasca negli anni Ottanta (ma cominci a diffondersi solo nei Novanta) negli Usa (al solito) come etichetta-ombrello a difesa e rivendicazione dei diritti di tutti i non cisgender (i “non eterosessuali”, insomma). Per inciso, anche Usa è un acronimo, ma questo pronunciabile e noto ai più. Orbene, a questa variegata galassia di generi e d’inclinazioni sessuali (che solo a sentirla descrivere si va un tantino in confusione) appartenevano in principio solo coloro che fino alla rivoluzione sessuale degli anni Sessanta venivano chiamati, in Italia, “sodomiti”. Termine che conteneva una considerevole dose di disprezzo. Così, per contrastare il disprezzo, si cambiò la parola. (Siamo alle solite, ahinoi: si cambiano le parole invece di cambiare le cose, cioè la mentalità).
E allora si prese a parlare di “invertiti”, e poi di “omosessuali” e più tardi di “gay”. (È interessante l’origine e la storia della parola “gay”, ma è meglio parlarne un’altra volta). Finché adesso, vedete, a non voler far torto a nessuno e a voler comprendere tutti i “non convenzionali” in materia di sesso/genere (perché ormai è chiaro: mica ci sono solo i cosiddetti gay tra i “diversi”), cioè per comprendere tutti coloro che si discostano dai comuni e miseri eterosessuali (i quali – sia detto per inciso – non mi risulta che siano o siano stati mai un’esigua minoranza presso qualsivoglia popolazione, pena l’estinzione della specie; ma lasciamo andare); ebbene, per comprendere ogni, come dire, “non conformità”, ha preso piede questo obbrobrio di parola, questo “aborto linguistico” della/dello LGBTQI+.
Infine, dulcis in fundo, una piccola chiosa, a cui si accennava più sopra, e cioè una notazione sulle “parole-ipocrisia”, i cosiddetti eufemismi. I quali ultimi sono soltanto un modo di dire le stesse cose di prima, senza che qualcuno storca il naso. Ecco, lasciamo perdere per un momento il sesso e il genere. Parliamo d’altro.
Avete presente la parola “cesso”? Orrore, una parolaccia! Ma “cesso”, illo tempore, significava semplicemente “recesso”, cioè luogo appartato della casa, come di norma erano i cessi. Poi, per evitare di nominare direttamente quel luogo imbarazzante (con una parola avvertita a un certo punto come sconveniente perché troppo diretta) si prese a dire “gabinetto”, ossia piccola gabina o cabina (che tali una volta erano le “ritirate” – altro eufemismo – anche nelle case signorili). Ma non bastava: venne poi il tempo di “servizi”, “toilette” e quindi “w.c.”, non saprei in quale ordine esatto. E non pochi, oggi, per dire “per piacere, dov’è il bagno?” (ennesimo eufemismo…) usano la perifrasi eufemistica “dove posso lavarmi le mani?”, anche se devono solo fare la pipì. E poi magari dopo lavarsi anche le mani, d’accordo…