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L’Italia è così presente nei pensieri del monarca fondatore della potenza russa e in quelle dei successori da far loro scegliere architetti e urbanisti italiani tanto per realizzare la nuova capitale sulla Neva, quanto le residenze estive e invernali cuore del potere autocratico.
Per la Repubblica Serenissima negli anni Ottanta del Settecento, quindi, Vienna, Costantinopoli e San Pietroburgo sono le tre incognite di un’equazione strategica di difficile soluzione. Che fare?
La domanda percorre a ogni livello la società veneziana. Coinvolge chiunque perché le sorti dello stato più antico d’Europa riguardano tutti in laguna. Un fatto che sfugge solo agli occhiuti guardiani della sicurezza. Secondo loro il futuro della Serenissima è affare riservato ai patrizi che siedono nei consigli di governo, in particolare quelli del più ristretto cerchio del potere: Dieci, Signoria, Senato. Nulla più. E per questi la continuità nell’esistenza della Repubblica si ottiene solo attraverso la stabilità garantita dall’immobilismo e, quindi, dalla neutralità politica e militare. Lo scontro, anche solo con i meno chiusi tra gli aristocratici delle grandi case, diventa inevitabile.
L’aspetto da sottolineare, però, è la stretta connessione tra una diversa visione di politica internazionale e la richiesta di radicali riforme interne: quasi fosse impensabile modificare uno solo dei due cardini del problema veneziano. Una consapevolezza che riguarda entrambi i fronti contrapposti, oligarchia neutralista e Geniali interventisti. E in effetti le cose stanno proprio così.[1]
Per sfuggire alla fatale tagliola degli organi preposti alla sicurezza, però, i Geniali “novatori” eviteranno di collegare i due momenti, cioè nuove linee di politica estera e necessari cambiamenti interni: un legame al contrario sempre presente nelle menti dei guardiani del potere.
L’elenco delle personalità coinvolte tra i Geniali di Moscovia taglia comunque in modo trasversale i due grandi partiti in cui si divide il patriziato veneziano del Settecento, conservatori e “novatori”. Per lo più, però, si tratta dei “giovani patrizi” che a partire dalla metà del secolo diventano protagonisti della vita politica veneziana, travasandosi spesso da un fronte all’altro secondo necessità od opportunità.
Paolo Renièr, Andrea Querini, Pietro Barbarigo, Alvise Vallaresso, Bernardo Nani, Andrea Tron, Francesco II Lorenzo Morosini, Gerolamo Grimani, Sebastiano Grimani, Alvise Emo, Gerolamo Ascanio Giustiniàn: tutti nati tra il 1710, Paolo Renièr, e il 1721, Gerolamo Giustiniàn.
I “novatori” si divideranno in “chietini”, cioè riformisti morbidi come Barbarigo e i due Grimani, e in “furenti”, come sarà definito in particolare Morosini. Non tutti saranno convinti allo stesso modo della bontà del progetto. In particolare Andrea Tron, troppo preoccupato di perseguire una sua personale visione mirata al rafforzamento dello stato veneziano per assecondare altre suggestioni.
Comune sarà, però, l’aspirazione a interventi profondi capaci di ridare forza e prosperità alla Serenissima attraverso un suo riposizionamento geostrategico. Nel 1763 Andrea Tron, riesce a raccogliere una sorta di fronte progressista, dove si ritrovano fianco a fianco signori delle casate egemoni, come Andrea Vallaresso, e funzionari di alto rango, quale Piero Franceschi segretario dei correttori alle leggi nel 1761-62.
Spiccano tra tutti, però, i due grandi sostenitori patrizi del movimento quirinista, per sua intrinseca natura rivoluzionario e per questo stroncato dai comitati per la sicurezza, e cioè Francesco II Lorenzo Morosini e Gerolamo Ascanio Giustiniàn.
Morosini è nato il 21 giugno 1714 in una delle famiglie più prestigiose della Serenissima, i Morosini di San Vidàl.[2]
Destinato alla politica, “novatore furente”, avviato alla carriera diplomatica, ambasciatore a Madrid, Torino, Parigi, il 22 novembre 1760 viene nominato ambasciatore a Londra in coppia con il procuratore Tommaso Querini. L’occasione è fornita dall’incoronazione di re Giorgio III.[3]
In realtà, i due inviati della Repubblica partiranno soltanto nell’autunno dell’anno successivo. Morosini, così, partecipa da savio del Consiglio, uno degli incarichi politici di maggior peso a Venezia, alla cosiddetta “crisi queriniana”, vale a dire al tentativo riformista che ha nella figura dell’avogadòr de comùn Angelo Querini il suo protagonista eponimo.
Quando si scatena la repressione da parte degli organi della sicurezza, Dieci e Inquisitori, il “partito dei novatori” si liquefa e l’intera agitazione finisce in una bolla di sapone. Ciò non toglie che Francesco II Lorenzo Morosini, definito nel 1788 dall’ambasciatore austriaco a Venezia Francesco Simone Corradini spirito «furente»,[4] non continui a farne parte: diventerà anche massone affiliato alla loggia di rio Marin.
Il sospetto è che la missione anglo-russa dei due costituisca anche una sorta di risarcimento politico per il partito sconfitto. Lasciata Venezia alla fine di marzo del 1762, Morosini e Tommaso Querini arrivano a Londra l’8 giugno 1762. Tuttavia, l’ingresso solenne nella capitale inglese viene ritardato fino al 18 aprile 1763 per permettere loro di dialogare con l’ambasciatore russo Mikail Voronzov. Obbiettivo, quello minimo cercato dai Geniali, vale a dire un accordo commerciale veneto-russo.
Nelle more dei colloqui, partiti molto positivamente, avviene però a San Pietroburgo il colpo di stato che detronizza lo zar, Pietro III, e porta al potere la consorte tedesca, Caterina II. Le trattative s’interrompono, anche perché Voronzov, a suo tempo tra i favoriti della zarina Elisabetta, non è affatto nelle grazie della nuova autocrate.
L’interesse per l’accordo resta comunque vivo in entrambe le parti, tant’è che le trattative proseguono nella sede di Vienna. Qui l’ambasciatore veneziano riceve dall’omologo russo un’articolata proposta di trattato commerciale.[5]
A dispetto dell’apparente progredito “stato avanzamento lavori” non se ne farà nulla. Come mai? A pesare è la ritrosia veneziana a irritare Costantinopoli con una mossa che, sul Bosforo, potrebbe essere interpretata come anti-ottomana. Tra l’altro in un momento molto fluido, con il trono di Caterina II ancora non ben consolidato e le prospettive internazionali quanto mai incerte. Tra poco, quando la nuova strategia russa rivoluzionerà l’intero quadro geopolitico europeo, tutto cambierà.
Il secondo personaggio rilevante è Gerolamo Ascanio Giustinian. Nato il 4 luglio 1721, educato da quelle due menti brillanti che corrispondono ai nomi di Carlo Lodoli e Giambattista Pisenti, è stato amico del poeta maledetto Giorgio Baffo, fine erudito ma dedito più che altro allo sberleffo di gusto popolaresco, e soprattutto di Angelo Querini, l’avogadòr de comùn protagonista della maggior crisi politica interna del secolo. I Querini sono un clan familiare da sempre al centro di ogni tentativo di cambio costituzionale a Venezia.[6] Le sue sono state frequentazioni pericolose, dunque.
Discendente di una delle grandi casate senatorie, sposa l’1 ottobre 1748 Caterina Pisani figlia di Gerolamo del ramo “dal banco”: nel Settecento una delle famiglie più influenti di Venezia, ma anche coinvolta con Giorgio Pisani nei tentativi di cambiamento costituzionale.
Non solo, tramite la moglie, Gerolamo Giustinian si ritrova imparentato anche con i Tron di San Stae. E la seconda metà del secolo è senza dubbio dominata dalla figura del procuratore di San Marco, cavaliere della Stola e quant’altro Andrea Tron, sbrigativamente soprannominato “el Paròn”. Della Repubblica, ben s’intende.
Si tratta, dunque, di una personalità inserita nel circuito delle famiglie dove si decide e allo stesso tempo con relazioni ramificate anche negli ambienti dell’opposizione nobiliare. Per di più, il nostro Giustinian è bailo a Costantinopoli nel momento cruciale dello scoppio della Sesta Guerra Russo-Ottomana, quella combattuta tra il 1768 e il 1774. Arriva sul Bosforo l’1 ottobre 1767, poco prima che il conflitto inizi.
Lo snodo è fondamentale. La spinta russa verso i mari caldi trova in questo momento la sua prima stabile realizzazione. Del resto, la zarina Caterina II aveva già reso palese il suo programma politico: «Unire il Mar Caspio al Mar Nero e l’uno e l’altro ai mari del Nord; far passare i commerci della Cina e delle Indie Orientali per la Tartaria equivale a elevare quest’impero (il russo, ndr.) a un grado di potenza superiore agli altri imperi d’Asia e d’Europa. E chi può resistere al potere illimitato di un principe assoluto che governa un popolo bellicoso?»[7]
Non si può certo dire avesse mascherato le proprie intenzioni. Né che queste non rappresentino da Pietro I ai giorni nostri una costante strategica nella geopolitica russa.
Può Venezia approfittarne? Diciamo che sarebbe nell’”interesse nazionale” della Repubblica. Specie alla luce di quanto detto sull’origine delle passate fortune della Serenissima. Se la Russia riaprisse le vie della Seta terrestri e spezzasse il blocco ottomano sulle rotte marittime verso e dal Mar Nero, Venezia otterrebbe due risultati fondamentali.
Primo: incanalare almeno una parte dei flussi commerciali deviati da portoghesi a anglo-franco-olandesi verso gli oceani, Indopacifico e Atlantico, riportandoli a Rialto.
Secondo: spezzare l’assedio asburgico, ponendo fine all’egemonia esercitata sui mercati continentali dall’asse di penetrazione renano a partire dagli scali di Anversa, Rotterdam, Amsterdam.
La riacquistata libertà di commercio non potrebbe che tradursi in ritrovati orizzonti politici e, perché no?, militari. In una parola, strategici. Il tutto, è chiaro, in un’ottica di lungo periodo.
Perseguire una simile impostazione, però, richiederebbe adesso d’entrare nella guerra in corso tra russi e ottomani. Tocca, invece, proprio a Gerolamo Ascanio Giustinian nel luglio 1770 rassicurare la Sublime Porta circa la stretta neutralità veneziana. Un errore imperdonabile.
Giustinian lascia le rive del Bosforo il 26 agosto 1771. Non è stato capace di far vedere ai consigli di governo lagunare quale fosse la via da seguire. Perché in sei anni di conflitto le forze del sultano vengono sconfitte a ripetizione per terra e per mare. Emergono figure di grandi comandanti, quali Pëtr Aleksandrovič Rumjancev-Zadunajskij, Aleksandr Vasil’evič Suvorov, Grigorij Aleksandrovič Potëmkin, ma a Venezia interessa di più l’ultimo di questa schiera e cioè Aleksej Grigor’evič Orlov-Česmenskij.
Figura preminente nella politica e nelle Forze Armate russe del periodo, pesa per il suo ruolo di ammiraglio comandante della squadra navale del Baltico, che guida nel Mediterraneo. Il 2 luglio 1770 a Çeşme sulla costa egea dell’Anatolia, da cui il Česmenskij aggiunto al cognome Orlov, infligge agli Ottomani una terrificante sconfitta.
Grigorij Aleksandrovič Potëmkin, invece, non è solo uno dei grandi favoriti della zarina Caterina II, forse suo marito segreto e padre di una figlia naturale, bensì è l’uomo che studia e porta a compimento la grande espansione meridionale dell’impero: quando la guerra finisce, il 21 luglio 1774 con la pace di Küçük Kaynarca, la Sublime Porta cede alla Russia la regione compresa tra i fiumi Dnieper e Bug Meridionale.
Qui, alla foce del Dnepr, il principe di Tauride Potëmkin nel 1778 procede alla costruzione di un porto nuovo di zecca: lo chiamerà Cherson, richiamando l’antica colonia greca omonima in Crimea. È il primo scalo marittimo russo su un mare non bloccato dai ghiacci d’inverno. Il sogno di Pietro I diventa realtà.
Non solo. Il medesimo trattato assegna alla Russia anche il porto di Kerč’, l’antica colonia milesia di Panticapeo. Situata all’estremità dell’omonima penisola in Crimea, controlla l’accesso al Mar d’Azov, cioè la Palude Meotide degli Antichi. Vale a dire del terminale delle vie della Seta terrestri a conclusione della lunga traversata lungo le steppe eurasiatiche.
Ancora. Esattamente alla base della penisola di Kerč’, quindi sempre in Crimea, si trova la città portuale di Feodosia, cioè la Caffa “Regina del Mar Grande (Nero)” dei genovesi. Per almeno due secoli una metropoli in grado di rivaleggiare con la stessa Costantinopoli. Questo, in virtù della sua rilevanza come porto d’imbarco/sbarco lungo la via terrestre della Seta.
Con il trattato del 1774, i russi ottengono anche Yenikale, la formidabile fortezza costruita dall’italiano Goloppo agli inizi del secolo proprio sulla punta estrema della penisola di Kerč. Infine l’intero Caucaso occidentale, fino a Cabardino-Balcaria, oltre a tutti i territori che si affacciano sul Mare d’Azov, porti di Mariupol e Rostov sul Don in testa.
Su quanto resta del dominio ottomano in Crimea, vale a dire il Khanato omonimo, esercitano una forma di protettorato che arriverà alla piena annessione nel 1783. Aggiungiamoci la piena libertà di navigazione, sul Mare d’Azov, il Mar Nero e attraverso i Dardanelli con il permesso per i sudditi cristiano-ortodossi del sultano di alzare la tutelata bandiera russa.
La costruzione della città-fortezza portuale di Sebastapoli, sul luogo dell’antica Chersoneso Taurica greca e romana, da parte di Potëmkin, a partire dal 1784, completerà l’opera: qui viene stanziata la nuova flotta russa del Mar Nero.
È da notare che Cherson sul Dnepr non è distante da un altro porto destinato a grande rilevanza: l’antica colonia greca di Tyras, cioè l’odierna Odessa. Rifondata dai russi nel 1794, dopo l’acquisto dell’intero territorio al termine della Settima Guerra Russo-Ottomana nel 1792.
Caterina II è personaggio chiave nella nostra storia. Non per niente Federico II di Prussia incontrerà Giuseppe II d’Asburgo per cercare di fermare il «torrente che rischia di sommergere il Mondo».[8]
Si deve alla lungimirante politica della zarina se la serie di uomini sopra ricordati riesce a espandere le frontiere russe sia a meridione che a occidente. Perché il secondo grande fronte aperto dalla tedesca di San Pietroburgo si chiama Polonia.
[1]Cfr. Moro, Angelo Emo e Venezia Neutrale.
[2] Cfr. Gullino Giuseppe, Francesco Lorenzo Morosini, Treccani-DBI, vol. 77 (2012).
[3] BMC, Manoscritti, c. 113r, Commissione del doge Francesco Loredan a Tommaso Querini e Francesco Morosini eletti ambasciatori straordinari al re di Gran Bretagna.
[4] Tabacco Giovanni, Andrea Tron e la crisi dell’aristocrazia senatoria a Venezia, Udine, 1980, p.118.
[5] ASV, Senato, Deliberazioni, Corti, 26 marzo 1763, p.12.
[6] A cominciare da Marco che condivide con Baiamonte Tiepolo e Badoero Badoèr la principale responsabilità della cosiddetta “congiura” del 1310. N.d.A.
[7] Così Caterina II in Henry Troyat, La Grande Caterina, Milano, Rusconi, 1993, p. 206.
[8] Ivi, p. 268.